Siamo razzisti. È un’amara constatazione. Lo è la società, lo è l’uomo. Il razzismo è parte integrante della nostra storia. Una piaga che si insinua nel nostro inconscio, insita nella nostra mente, impossibile da sradicare, frutto di un processo di
alienazione e diffidenza avallata dalla comunità, da un Noi declinato in modo distorto, fuorviante, divenuto Io esasperato. Il razzismo è manifestazione precipua del privilegio, dell’auspicio di primeggiare, di padroneggiare, anteponendo il perseguimento del proprio interesse, in nome di una necessità ontologica che individua le sue radici nell’ignoranza.
Noi siamo profondamente ignoranti, ingrati e egoisti. Continuiamo a esserlo, arrogandoci la libertà apparente di credere a concezioni da cui traiamo appagamento, giovamento effimero, in quanto concernono noi, nella nostra dimensione esclusiva, appartata, nell’angulus in cui crogiolarci della nostra superiorità. L’altro è nulla, estrinseco, pernicioso. Siamo i fautori dell’ipocrisia, della vuota retorica, dell’egualitarismo teso a non scontentare nessuno, di un’omologazione di opinioni difformi, in un quadro composito, spesso discordante, dell’adozione dell’avversativa, del ma implicante dubbio, certi nel nostro immobilismo, tentennanti nella fattività.
Noi, nel nostro sonno dogmatico, sospinti dall’inerzia dell’opportunità, ci ostiniamo a rifugiarci nel nostro cantuccio, indifferenti, conniventi, partecipi della violenza, della denigrazione, dell’emarginazione.
Come destare le coscienze dall’impoverimento valoriale, dal decadimento che stiamo vivendo? È stata necessaria la morte, l’omicidio bieco e abietto di George Floyd per scatenare un moto di dissenso, di sdegno, prima taciuto e represso, ora urlato, in maniera coesa, in una coralità dotata di una forza innata, in tutto il globo, dall’America al Brasile del generale Jair Bolsonaro, dalla Londra del “redento” Boris Johnson fino a Dakar, in Senegal.
Black lives matter, che colora i cartelli branditi dai manifestanti, non è un mero motto ma un anelito di cambiamento, la voce di milioni di persone, l’istanza comunitaria martoriata dalla classe politica, dai gruppi di potere, dagli organi decisionali. È la classe politica la prima entità responsabile del razzismo, della disparità sociale, acuente di quella vacuità intellettuale e ideologica di cui siamo vittime.
Una classe politica che non assume una posizione netta sul razzismo non è degna del ruolo che ricopre. La rappresentanza è eminentemente un dovere, prima che un diritto, e l’esercizio di questa dev’essere onorato.
Non è l’appartenenza partitica a determinare le scelte, né l’ideologia costitutiva, ormai suscettibile al trasformismo e a celeri metamorfosi kafkiane, piuttosto la mentalità della massa, la ricerca spasmodica e stucchevole del consenso, il conseguimento di percentuali asfittiche e sterili nei sondaggi.
“La moda, come determina il piacevole, così determina il giusto” affermava il filosofo Blaise Pascal nei suoi Pensieri, anticipando quella che oggi si rivela il collante caratterizzante la politica. La moda, il senso comune che è manchevole di senso, manipolato e manipolabile a causa del disinteresse, della sfiducia nelle Istituzioni.
Noi, nella nostra indifferenza, pratichiamo masochismo, avvertendo voluttà ma al contempo lagnandoci per i problemi che ci affliggono.
“Il prezzo pagato dalla brava gente che non si interessa di politica è di essere governata da persone peggiori di loro”, soleva ripetere Platone. Una frase che ha molteplici sfumature e declinazioni e esemplifica la pochezza di una politica votata all’odio, al cinismo, alla semplificazione.
Schiavi della complessità dell’avanzamento tecnologico, siamo così assuefatti da richiedere una risolutiva semplicità per questioni che andrebbero approfondite e indagate.
È la semplificazione, la banalizzazione, il propulsore della discriminazione razziale e di chi la cavalca, dei movimenti sovranisti, nazionalisti, ma anche di un populismo mortificante il concetto stesso di popolo.
Il razzismo si configura come espediente spendibile in qualunque campo; fomentare e accalorare la massa non presuppone, infatti, alcun ragionamento di tipo logico, riducendosi all’attuazione di una strategia della tensione volta a destabilizzare la società.
L’uomo forte, carismatico è la soluzione ideale per 4 italiani su 10, che della pandemia hanno patito l’implicazione economica, e che ravvisano nei migranti la minaccia principale da arginare. L’attuale opposizione, invece di mostrarsi collaborativa, esacerba gli animi, gridando allo scandalo, all’alto tradimento, invocando quasi una punizione divina.
Di contro, questa destrutturazione di un indirizzo ideologico e valoriale ha determinato lo spaesamento del campo della sinistra italiana, che fa fatica a ritrovare una rotta unitaria, a porsi come portavoce di posizioni inequivoche e chiare sulla piaga del razzismo.
Non è certamente bastevole aborrirlo a parole, è doverosa un’azione legislativa drastica, finora disattesa.
Lo Ius soli, evocato da anni, non è all’ordine del giorno, mentre la revisione dei Decreti Sicurezza emanati dall’ex Ministro dell’Interno, nonché leader del principale partito italiano, Matteo Salvini, strumenti di aberrazione, è osteggiata da una componente sempre più evanescente del panorama politico, identificabile nel M5S.
La regolarizzazione dei braccianti impegnati nelle campagne per garantire il nostro benessere, è un palliativo, una chimera, essendo stata contemplata per un periodo temporaneo di 6 mesi, al termine del quale le schiere di lavoratori sfruttati dalle organizzazioni criminali ritorneranno a essere invisibili.
Siamo razzisti in quanto dileggiamo sprezzanti la vita altrui, non attribuendole dignità, assistendo in silenzio alle stragi nelle baraccopoli sparse per il Meridione, da San Ferdinando, ove il 2 giugno è stato commemorato l’anniversario della morte di Soumaila Sacko (la cui storia è documentata nel libro La pacchia, della giornalista Bianca Stancanelli) a Borgo Mezzanone, nel Foggiano, ieri teatro dell’ennesimo rogo che ha veduto perire un giovane senegalese di 37 anni, Mohamed Bel Ali, uno dei tanti in attesa di regolarizzazione.
Siamo razzisti, esitanti nella nostra bulimica solitudine.
Per rifuggire da questa natura è pertanto indispensabile assurgere a modello le piazze della protesta antirazzista, in primis la Piazza del Popolo di domenica a Roma, esempio di civiltà, di profonda umanità. Una piazza di cui Enrico Berlinguer sarebbe stato orgoglioso, oggi, nel giorno in cui si celebrarono le sue esequie, perché permeata dalla sua rettitudine, dalla sua visione, compendiata in una frase di speme riposta nelle nuove generazioni: “Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia".
Non c’è scampo per il razzismo.