Belgrado è infuocata. La città è stata investita dalla sommossa dei manifestanti contro il nuovo lockdown paventato dal Presidente Aleksandar Vucic, fresco di riconferma. Decisione figlia di un picco dei contagi dopo l’allentamento delle misure e la riapertura incondizionata, con 17 mila casi su 7 milioni di abitanti complessivi. La riapertura senza remore ha infatti determinato una diffusione capillare, dal momento che non sia stata dettata alcuna disposizione, basilare, sull’adozione delle mascherine e il mantenimento del distanziamento sociale. La minaccia di ristabilire il coprifuoco, imposto dal 19 marzo fino a fine maggio, con chiusura delle attività non essenziali e divieto di circolazione, ha fatto scendere in strada la popolazione della capitale, dando vita a una guerriglia urbana, culminata con l’irruzione in Parlamento di martedì sera. Centinaia di arresti, fumogeni, cariche violente e soprusi della polizia divulgate sui social network, per una protesta collettiva animata dal timore di una deriva autocratica, denunciante l’opera di minimizzazione del governo. Il rispristino della normalità è infatti coinciso con la tornata elettorale presidenziale, tenutasi il 21 giugno, che ha visto il partito di Vucic, l’SNS (Partito Progressista serbo) annichilire la concorrenza, conseguendo il 63% delle preferenze. Le rivendicazioni di piazza si basano proprio su questo voto, muovendo l’accusa di aver mistificato e insabbiato i dati reali sui livelli di contagio a scopo elettorale. A tal proposito, un’inchiesta del portale indipendente BIRN ha confutato l’attendibilità dei dati ufficiali, sostenendo come le autorità abbiano diffuso numeri tre volte più bassi rispetto a quelli effettivi. I contagi stimati nell’arco temporale del 17-20 giugno sarebbero infatti 300 rispetto ai 97 acclarati, così come i decessi, 632 rispetto ai 244 ufficiali.
Il Presidente ha condannato gli scontri, dichiarando come questi siano perpetrati da “estremisti di destra, criminali e terrapiattisti”. Tuttavia, la protesta vede la presenza di una plurale fascia della cittadinanza, che nel carattere trasversale ha la sua forza; una sfida agli avvertimenti di Vucic, sfociata in atti dimostrativi, in un Paese governato dal 2012 dallo stesso uomo.
Un Paese, la Serbia, che ha assunto una fisionomia monolitica, in cui l’apparato di potere detiene il controllo integrale delle istituzioni e dei canali di comunicazione, come attestato dalla subalternità dell’emittente televisiva nazionale. Come scrive l’ISPI: “martedì sera, mentre la capitale serba veniva messa a ferro e fuoco, la Tv nazionale RTS trasmetteva programmi di intrattenimento, e le proteste sono state riportate per intero solo ed esclusivamente dall’emittente indipendente N1.”
Ma le elezioni non sono state il solo elemento foriero di contagio; altri due eventi causa di grandi assembramenti, hanno aggravato la situazione. Il primo, il derby di Belgrado, ribattezzato “eterno”, tra Partizan e Stella Rossa, storicamente rivali, giocato a porte aperte, in uno stadio stracolmo, con 25 mila spettatori; il secondo, l’Adria tour, torneo organizzato dal campione del tennis Novak Djokovic, numero 1 al mondo, che si è tramutato ben presto in un focolaio. La trasgressione di ogni norma contemplata per arginare il Covid, dalle tribune ingombre, agli abbracci tra giocatori, alle feste in discoteca degli stessi, è stata così plateale che alla fine sono risultati positivi almeno sei degli invitati all’evento, tenutosi tra Serbia e Croazia, atleti internazionali del panorama tennistico, tra cui lo stesso serbo, convinto negazionista e no vax, che ha dovuto sommessamente ammettere di esser stato contagiato.
Altra occasione importante di contagio sono stati i festeggiamenti nella sede del partito di Vucic la sera del voto, con balli e canti tradizionali in circolo che hanno sortito conseguenze dirette sui membri dell’esecutivo, in primis sul Ministro della Difesa Aleksandar Vulin, nonché sul capo dell’ufficio per il Kosovo, Marko Djuric, e sulla presidente del parlamento, Maja Gojkovic.
Festeggiamenti per la vittoria a mani basse del leader di un partito, che a dispetto del nome, è tutt’altro che progressista, che si pone come suggello di una propaganda martellante precedente alla giornata elettorale, reprimente ogni tentativo di dissenso in pieno lockdown, come quando gli hooligans in mezzo alle strade hanno sopito i rumori dei mestoli sulle stoviglie dei cittadini reclusi sui balconi, espressione di contrarietà per la gestione sanitaria, accendendo fumogeni e intonando cori contro l’opposizione. Opposizione praticamente esautorata dall’arco parlamentare, dal momento che Vucic abbia ottenuto 187 seggi su 250, registrando un incremento di 83 seggi rispetto alla scorsa legislatura; gli altri partiti non appartenenti alla coalizione maggioritaria non hanno superato la soglia di sbarramento del 3%. Risultato del boicottaggio promosso dalle stesse forze all’opposizione, riunite nell’Alleanza per la Serbia (ZnS), ravvisante la decadenza della democrazia e la presunta instaurazione di un cosiddetto “regime ibrido”, è stato però il drastico calo nell’affluenza, attestatasi al 49% rispetto al 56,7% delle elezioni del 2016. Ciononostante, l’esito è stato plebiscitario, a senso unico, per colui che, come afferma il quotidiano Il Foglio, “s’atteggia a nuovo Orbán”. Un Orbán che non ha richiesto espressamente i pieni poteri, ma di cui è stato indirettamente fregiato, legato a doppio filo con due Paesi strategici quali Cina e Russia.
Un rapporto indissolubile, di profondo rispetto reciproco, ulteriormente corroborato durante l’esplosione della pandemia. “Cinesi e serbi come fratelli” ha costantemente ribadito Vucic, arrivando a baciare la bandiera della Repubblica Popolare in segno di deferenza; manifesti e murales sono campeggiati nelle strade di fronte al Parlamento, a voler ringraziare i cinesi per l’assistenza medica fornita, sminuendo, al contempo, gli aiuti provenienti dall’UE. Un’assistenza che non si limita soltanto all’ambito sanitario ma coinvolge anche altri aspetti della politica interna serba. Le relazioni bilaterali si fondano infatti sull’asset infrastrutturale, concretato nell’istituzione delle Nuove vie della Seta, che prevedono il rinnovo della ferrovia Budapest-Belgrado, finanziata da Xi Jinping , i cui dettagli sono stati secretati con decreto specifico dal premier ungherese. Una strategia, quella cinese, già ampiamente adottata in Africa, soggetta a una vera e propria “colonizzazione” commerciale. Anche la cooperazione militare è un elemento di grande rilevanza: l’ultima consegna di armamenti da Pechino è avvenuta il 30 giugno, ufficializzata dall’organo del partito comunista Global Times nella sera del 6 luglio. Un carico di 6 droni armati da ricognizione telecomandati CH-92A e 18 missili terra-aria, che si configura come la prima fornitura di equipaggiamenti per l’aviazione a uso militare della Cina a un Paese europeo. Strumenti avanzatissimi, realizzati dall’azienda a proprietà statale cinese China Aerospace Science and Technology Corporation (CASC), che hanno un raggio d’azione di oltre 250 km, possono raggiungere un’altezza di 5.000 metri, una velocità massima di 200 km orari e trasportare 2 missili ciascuno, tra cui quelli terra-aria che possono colpire fino a 8 km di distanza, secondo quanto riferito dall’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale dell’Università Luiss.
Se Xi Jinping è il fratello di Vucic, Putin ne è il padre ideologico. La Serbia ha da sempre intessuto rapporti con la Russia, dal rifornimento militare al sostegno economico, testimoniati dai costanti bilaterali tra i rappresentanti dei rispettivi esecutivi. L’ultimo incontro, tenutosi il 23 giugno, è stata l’occasione per rinnovare le relazioni proficue da tutti i punti di vista: Vladimir stesso ha chiarito come “l'anno scorso, l'interscambio è cresciuto del 22,6 per cento. E quest'anno per il primo trimestre, già del 7,7 per cento”. Un focus sulla lotta alle minacce moderne, nelle loro molteplici forme, volta a far sì che la Serbia svenda la propria democrazia a questa o quella egemonica superpotenza, accomunate dall’opposizione al riconoscimento della sovranità del Kosovo, considerato territorio serbo.
Ed è proprio l’indipendenza, per adesso autoproclamata, del Kosovo, il requisito fondamentale per vedersi accettata l’adesione all’Unione Europea tanto auspicata. L’UE che ha stanziato sovvenzioni per un valore di circa 3,6 miliardi di euro, a fronte dei soli 30 milioni concessi dalla Cina, e che tenta una normalizzazione dei rapporti dopo la guerra che vent’anni addietro causò 13 mila morti.
La mediazione sospirata dell’Alto Rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, insieme alla collaborazione del presidente francese Emmanuel Macron e della cancelliera tedesca Angela Merkel, ha permesso di riprendere un dialogo fermo da oltre un anno e mezzo. Il vertice formale tra Vucic e il premier di Pristina Avdullah Hoti è stato rinviato al 16 luglio, dopo che il tavolo tra la diplomazia serba e kosovara in programma alla Casa Bianca era saltato a causa dell’incriminazione del Presidente kosovaro Hashim Thaçi per crimini di guerra e crimini contro l’umanità da parte del Tribunale speciale dell’Aja.
Perseguire la Via della Seta o quella dell’intesa col Kosovo per approdare nell’Unione Europea? È questo il dilemma di Aleksandar Vucic, il “carismatico” leader dal 63%, sopraffatto dal virus ma soprattutto dalle tensioni dei cittadini, che non hanno alcuna intenzione di attenuarsi.