Lepri e tartarughe: una prospettiva per la Fase 2 al Meridione.
Le nostre riflessioni vanno nella prospettiva di un Mediterraneo non zavorra ma sviluppo per l’UE; in quest’ambito appare importante capire, in particolare e mutatis mutandis, che ruolo debba giocare il nostro Meridione nel contesto nazionale ed europeo, soprattutto all’esordio della cd. “Fase 2”, e soprattutto di quali risorse finanziarie potrà avvalersi. Inutile girarci intorno: è iniziata da giorni una forma di “guerra” a bassa intensità dove le schermaglie si combattono con dichiarazioni su giornali e sul web in tutte le sue articolate forme, e la posta in gioco sono i finanziamenti stanziati dal governo collegati all’emergenza Covid-19 per uscire dalla crisi finanziaria connessa a quella sanitaria di questi ultimi tragici mesi.
Singolare è stata ad esempio la dichiarazione del Presidente della Regione Lombardia nel richiedere in sostanza la gestione integrale dei fondi per l’emergenza nazionale, ricorrendo alla “metafora della bistecca”, che nelle case contadine del nord “mangerebbe solo il capofamiglia che lavora”, con ciò intendendo che a lavorare, in Italia, è solo la Lombardia (cfr. Adnkronos del 3.5.2020).
Ritenendo superfluo commentare l’amenità, che si commenta da sola, va detto che si tratta di argomento di matrice discriminatoria già usato ed abusato a quelle latitudini. Già nel 1991 l’equazione “Meridione=mafia, spreco e cattiva gestione” era argomento utilizzato da chi aveva proclamato la crociata contro il centralismo romano e invocava l’indipendenza del Nord (cfr. G.M. Belli, “Sorpresa, si scrive meridionale, si legge sprecone e incapace”, La Repubblica del 7.10.1992). Gli anni 1991/1992 sono anni tristi e tragici per l’Italia, sono gli anni di Tangentopoli e poi delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ma per qualcuno sono anni felici di crescita e di grandi affermazioni elettorali, approfittando della crisi dei partiti tradizionali conseguente alle indagini sulle tangenti e sui finanziamenti illeciti, ma sempre puntando sull’antimeridionalismo e su slogan e stereotipi razzisti (sul punto può essere utile il saggio di I. Diamanti “La Lega, imprenditore politico della crisi. Origini, crescita e successo delle leghe autonomiste in Italia”, in Questione settentrionale, 1993). La continuità ideologica dagli anni ’90 ad oggi è tutta nelle frasi ascoltate a recenti congressi (cfr. dichiarazioni di Umberto Bossi del 21 dicembre 2019, “Giusto aiutare il Sud, altrimenti straripano al Nord come gli africani”, cfr. Lettera43 del 22.12.2019).
Nel frattempo sono intervenuti nuovi argomenti a sostegno della tesi lombrosiana del sud sprecone ed incapace e corrotto e del nord produttivo vessato dal fisco, come ad esempio quelli esposti da Ricolfi nel suo “Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale” su cui si è soffermato M. Esposito nel suo “Zero al Sud. La storia incredibile (e vera) dell’attuazione perversa del federalismo fiscale” (Rubbettino, 2018), descrivendone nei particolari la capziosità, perpetuatasi di lì in poi anche sulla grande stampa (cfr. Corriere della sera del 27.1.2017, “Addio alla siringa che costava 50 cent in Piemonte ed un euro in Sicilia”).
Ma la vulgata raggiunge l’apice laddove a volte sono gli stessi politici meridionali a dare l’impressione di rincorrere sullo stesso terreno quei movimenti politici che hanno fatto di slogan di discriminazione territoriale il loro plafond culturale nella comunicazione politica (cfr. dichiarazioni di F. Boccia sul federalismo fiscale: “È l’occasione per dimostrare come il Meridione sia capace di tagliare gli sprechi e amministrare bene”, La Gazzetta del Mezzogiorno del 17.5.2010”).
Non sarebbe più utile, come dimostrano al nord i casi MOSE, EXPO ed Ospedale della Fiera, tanto per citare i più noti e recenti (cfr. “Mose, storia di uno spreco infinito”, L’Espresso del 2.3.2016; “Il dopo Expo: lo spreco contro lo spreco”, Huffpost del 3.11.2016; “Expo 2015, Sala smentito dai suoi stessi numeri”, G. Barbacetto, Il Fatto Quotidiano del 4.3.2016; e da ultimo, l’ospedale della Fiera da 21 milioni di euro: “L’ospedale in Fiera a Milano cesserà l’attività entro due settimane”, Corriere della Sera, 13.5.2020) affermare con forza e decisione che è l’Italia intera ad essere segnata da sprechi e malversazioni senza distinzioni territoriali? Ha senso continuare a veicolare nell’opinione pubblica l’idea che esistano due blocchi sociali distinti, non solo per collocazione geografica ma anche per etica e laboriosità?
In questo contesto, non appare affatto casuale che in recente documento del DIPE (il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica), struttura della Presidenza del Consiglio di supporto alle decisioni del CIPE, sia misteriosamente comparsa la previsione di sospendere la clausola di riequilibrio territoriale del 34% (la clausola introdotta dal Governo Gentiloni nel 2016 che aggancia i finanziamenti statali ordinari alla quota di popolazione per le regioni meridionali: cfr. C. De Vincenti “Dal Dipe una proposta sbagliata, regola del 34% vitale per il Meridione”, in Corriere del Mezzogiorno, 27.4.2020). La previsione è stata smentita e cancellata dal ministro, ma resta il mistero dell’inserimento di tale postilla da parte di “ignoto” del suo entourage.
Ma perché questa clausola dà tanto fastidio, al punto da inserire la sua sospensione in un modo così anonimo, subdolo e surrettizio? Questa clausola di riequilibrio non è una semplice previsione economica. È molto di più.
È un’autentica confessione. Con questa clausola lo Stato Italiano ammette, in un documento ufficiale, che finora (e non parliamo solo dello Stato Repubblicano nato nel 1946, ma dello Stato unitario tout court), al netto di tesi preconfezionate, il nostro Meridione ha ricevuto molto meno di quanto gli spettasse, creando prima, e aggravando poi, le condizioni di squilibrio che tutti abbiamo sotto gli occhi, e che certa stampa ci sbatte sotto il naso continuamente con le solite classifiche sulla qualità della vita (sui parametri delle quali molto ci sarebbe da verificare).
L’analisi è per forza di cose sommaria e va approfondita in sedi più appropriate e da persone meglio attrezzate, ma appare un dato di fatto che la tesi del Sud sprecone e fannullone, che riceve più di quanto abbia diritto a spese del Nord produttivo e lavoratore, è una vulgata tanto in auge negli ultimi 30 anni, più o meno dalla fine degli anni ’80 in qua, (grosso modo dalla nascita dei movimenti autonomisti del nord e nord est d’Italia al grido di Roma ladrona!) quanto destituita di fondamento. A pari di tutte le vulgate, a furia di ripetere dati destituiti di fondamento, come le bugie, diventano verità (frase attribuita a Goebbels, ma in realtà di padre ignoto).
Tuttavia questi squilibri non sono degli ultimi 20 anni, sebbene abbiano raggiunto in questo periodo cifre record (cfr. L. Patruno, “Tolti al Sud e dati al Nord 840 miliardi di euro in 17 anni”, in Gazzetta del Mezzogiorno del 7.2.2020, citando dati Eurispes 2020 che indicano in circa 46 milioni di euro all’anno le somme sottratte al Meridione a favore del Nord dal 2000 al 2017).
Fin dalla fine del XIX secolo le denunce dello sfruttamento del Sud da parte del Nord hanno avuto autorevoli avalli. Ne parla ad esempio Francesco Saverio Nitti, politico lucano, in “Napoli e la Questione meridionale”, 1903, dopo oltre 40 anni di assenza di investimenti pubblici, veicolati nella stragrande maggioranza al Nord Italia. Antonio De Viti De Marco, altro importante economista meridionale, per la presenza di tariffe che obbligavano il Mezzogiorno a comprare dal Nord industrializzato con gli investimenti pubblici sottratti al Sud, non esitava a definire “coloniale” la politica governativa applicata fino a quel momento nei confronti del Sud.
Politica coloniale basata sul dirottamento delle risorse pubbliche da Sud a Nord che ha subìto solo una breve interruzione negli anni dell’intervento straordinario al Sud con l’introduzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950, creata da Alcide De Gasperi e Pasquale Saraceno sul modello delle agenzie di sviluppo locale create da Roosevelt negli Stati Uniti d’America durante il New Deal seguito alla Grande Depressione. Il finanziamento prevedeva 100 miliardi di lire l’anno per 10 anni (anni in cui, significativamente, lo squilibrio Nord-Sud apparve infatti meno marcato), e poi rifinanziata fino al 1984, quando veniva sostituita dalla Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno, definitivamente soppressa nel 1992 (guarda caso, negli anni in cui la propaganda di discriminazione territoriale mostrava tutta la sua potenzialità distruttiva della coesione nazionale, lanciando i noti slogan sopra ricordati sul Sud sprecone e nullafacente). Quell’intervento straordinario, almeno nella sua prima fase, più o meno durata 25 anni, era composto “solo” di 300 dipendenti, quasi tutti ingegneri coordinati da Gabriele Pescatore, avellinese, figura poliedrica di magistrato, docente universitario e uomo di Stato, fino a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Corte Costituzionale nel 1993, presidente di quella fase primordiale dell’intervento straordinario al Sud, tra il 1955 e il 1975, che consentì di raggiungere risultati straordinari (cfr. “Il Mezzogiorno nella storia economica d’Italia, una questione aperta”, in Quaderno Svimez n. 50, marzo 2017), e di ricevere riconoscimenti e citazioni dall’Economist (con l’articolo comparso nel 1975 dal titolo “Lepri e tartarughe” sulla capacità di Pescatore di coordinare quel gruppo e ottenere risultati così importanti senza i mezzi di realtà più attrezzate).
Ecco, probabilmente oggi c’è per il nostro Sud la necessità da un canto di riprendere esempi organizzativi del passato, dare loro una dimensione interregionale di coordinamento agile e duttile e individuare figure dello spessore di un Pescatore e dei suoi dipendenti; dall’altro recuperare da parte di tutti i protagonisti, ovvero istituzioni politiche, imprenditoria sana (e sottolineo sana), intellettuali, quello spirito pionieristico e quella coesione che ha caratterizzato l’intervento straordinario al Sud degli anni 1950/1970, prima che la classe politica fosse travolta dal primo di numerosi scandali (quello cd. “dei petroli”, su cui ha scritto pagine dense di emozione M. Almerighi, “La storia si è fermata. Giustizia e politica”, Castelvecchi, 2014), e prima che la CasMez si trasformasse in un carrozzone da 30.000 dipendenti e fosse messo, dalla politica, in condizione di non poter più operare.
Soprattutto, al Sud bisogna recuperare la consapevole saggezza e le potenzialità della tartaruga, potendo anche consentire agli altri di atteggiarsi a lepri: purché le lepri la smettano di essere, contemporaneamente, gazze ladre.