Oggi l’Assemblea Nazionale del Partito Democratico eleggerà il suo ottavo Segretario, nella persona di Enrico Letta, chiamato a viva voce da Parigi, per risollevare le sorti di un partito alla ricerca di una nuova identità, ma anche di una ragione forte per sopravvivere. Ci sono motivi di grande attenzione interna ed esterna intorno alla scelta di una personalità come Enrico Letta a guidare una fase così delicata, a seguito delle improvvise dimissioni di Zingaretti. E sia il modo come si è pervenuti a questa soluzione e, sopratutto le peculiarità umane, professionali e politiche del prescelto, costituiscono una novità di rilievo nel panorama politico nazionale.
Intanto bisogna dire che questa non era sicuramente la soluzione a cui guardavano le varie componenti interne del partito per uscire dalla crisi creata dalla sortita dell’ex segretario Zingaretti e del suo mentore Bettini. Dal momento che tutti, pur reclamando il Congresso di fronte all’immobilismo e al progressivo appiattimento dei dem sulle posizioni del M5S, auspicavano una soluzione transitoria fino alle prossime elezioni amministrative rinviate in autunno. E si facevano anche i nomi, in prevalenza di genere femminile. Ma la gravità della situazione, i sondaggi catastrofici che vedono il PD precipitato alle spalle del M5S, rianimato dall’avvento dell’ex premier Conte, su cui Zingaretti aveva puntato tutte le risorse del partito, fino a pagarne il conto di persona, hanno indotto la maggioranza dem, suo malgrado, a chiamare in campo l’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta. Che sette anni fa, nell’era di Matteo Renzi, era stato bellamente messo in soffitta, in attesa di tempi migliori, che come avviene anche in politica prima o poi arrivano. Come è avvenuto per la chiamata di Draghi da parte di Mattarella, quando tutti puntavano sul Conte ter. Al punto che molti osservatori politici in queste ore stanno sottolineando le notevoli affinità tra i due personaggi Draghi e Letta, indiscusse “riserve della Repubblica”, con una vasta credibilità personale, ma con scarsa contiguità con le stanze affollate della politica e le camerille spregiudicate dei partiti. Anche se Enrico Letta ha una forte connotazione di appartenenza alla cultura e alla storia della Democrazia Cristiana, all’insegnamento di Beniamino Andreatta, ma anche alla grande scuola di vita di un politico accorto e intelligente come Renzo Lusetti. Ma il partito che trova oggi Letta non è neppure lontanamente paragonabile alla Democrazia Cristiana di fine anni 80, anche se dovrà fare i conti con vecchi amici come Franceschini e Guerini, impregnati dei valori del cattolicesimo democratico. Il PD abbandonato da Zingaretti è un non partito. A livello nazionale è un cenacolo di personaggi sopravvissuti alla traversata nel deserto di una sinistra italiana che, dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo Tangentopoli, non ha saputo darsi un contenuto di valori riconoscibili per occupare uno spazio maggioritario nella società italiana e per proporsi come forza di governo. Un partito senza popolo, che si è trasformato in populista e che si è rifugiato nell’europeismo nominalistico per nascondere l’incapacità di elaborare un progetto originale all’altezza della gravità dei problemi italiani di questi anni e drammaticamente vissuti in quest’ultimo anno. La scelta di Enrico Letta, sembra allora dettata solo dall’inadeguatezza di questo gruppo dirigente di produrre dal suo interno, dopo essere passato da defezioni, scissioni, abbandoni amari, che hanno lasciato ferite ancora sanguinanti, una soluzione che fosse il frutto del dibattito, ma anche delle aspettative dei suoi iscritti e simpatizzanti. Quelle stesse persone che sette anni fa, quando imperversava applaudito e largamente condiviso il renzismo, lo hanno costretto a trovare gloria e gratificazioni meritate lontano dalla patria, oggi lo acclameranno come ancora di salvataggio e leader indiscusso. Con buona pace delle aspirazioni di Bonaccini, Orlando, Pinotti e rassegnata condivisione di Franceschini, Delrio e via dicendo.
Ma è questa la soluzione migliore e definitiva dei problemi che attanagliano il Partito Democratico e che le dimissioni di Zingaretti hanno solo fatto precipitare? Anche qui il parallelo con Draghi è essenziale. Perchè nella misura in cui il Governo Draghi riuscirà, nel tempo definito che si è dato, a ridare normalità al Paese dal punto di vista sanitario, economico e sociale, darà la possibilità a Enrico Letta di affrontare senza grandi traumi la nuova fase che si apre oggi. Alcuni segnali precisi, anche in queste ore, Letta li ha voluti lanciare, nelle parole e nei gesti. Il grande significato delle parole, che devono esprimere idee, programmi e visioni e la ricerca della verità come guida non negoziabile dei fatti e dell’azione quotidiana. Anche in politica. Ma anche il ritorno alla base degli iscritti, la visita alla sezione PD di Testaccio, come scelta di campo, ma anche come ricerca di legittimazione democratica e di appartenenza. In una congiuntura che lo ha visto ritornare sulla scena, dalle ceneri di un vecchio metodo politico, in cui era sprofondato il Partito, che doveva guardare ai Democratici americani e che avrebbe dovuto fare sintesi positiva ed esaltare la migliore esperienza e i valori della dottrina sociale del cristianesimo e del socialismo democratico.
Ma oggi potrebbe cambiare qualcosa anche nello scenario devastato della politica calabrese. Perchè è inimmaginabile che il nuovo Segretario del PD Enrico Letta voglia inaugurare la sua prima esperienza elettorale regionale sulla scia delle pratiche politiche e delle scelte sconcertanti della gestione Zingaretti e dei suoi commissari.
Forse, proprio in Calabria il professore Letta dovrà superare il primo difficile esame. E non di francese.