Il libro è la cronistoria dei cinque giorni del congresso del PSI che si svolse al Teatro Goldoni di Livorno nelle prime quattro giornate mentre la quinta, con l’atto formale di nascita del PcdI, si tenne il 21 gennaio 1921 al teatro San Marco.
Si tratta di un lavoro fondato su una onesta documentazione di base (atti dell’assise, cronache dei giornali cittadini, la Gazzetta livornese e la Giustizia, resoconti stenografici della Direzione del PSI, articoli apparsi su riviste, alcuni libri sull’argomento scritti da storici di professione, un immaginario scambio epistolare tra Filippo Turati, capo della frazione riformista e la sua ultratrentennale compagna Anna Kuliscioff che sarebbe morta nel 1925) che si sofferma anche su elementi di costumi (le frazioni e gli alberghi dove alloggiavano i delegati di ognuna, p. 19 e segg.), sui momenti di conflitto quasi armato fra le fazioni (segnatamente fra il sindaco riformista di Bologna Massimo Gnudi e il comunista Nicola Bombacci che estrae di tasca anche una pistola, provocando la sospensione del congresso, p. 62).
Protagonisti del congresso furono le cosiddette fazioni: «Comunisti unitari serratiani 120mila, comunisti puri bombacciani 60mila, comunisti aderenti alla tesi Marabini-Graziadei 10mila, riformisti unitari turatiani 20mila» (p.23).
Il gruppo torinese dell’Ordine nuovo (per il quale erano presenti all’assise Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, Francesco Misiano e Umberto Terracini che fu l’unico ad intervenire ripetutamente, assieme a Misiano che aveva anche il compito di tradurre gli interventi del rappresentante della Terza Internazionale, il bulgaro Christo Stefanov Kabakċiev) era conteggiato nella fazione dei comunisti puri.
All’ordine del giorno c’erano i famigerati 21 punti con cui l’Internazionale Comunista aveva dettato l’ordine del giorno dei lavori: tra essi spiccava l’espulsione di Turati dal PSI, il cambiamento del nome del partito da «socialista» a «comunista», la rivoluzione armata e la dittatura del proletariato.
Colpisce il fatto che, nonostante i comunisti delle varie fazioni rappresentassero la quasi totalità degli iscritti al PSI (170mila su 190mila), non riuscirono ad avere ragione dei riformisti turatiani e di espellerli dal partito come voleva Mosca e ciò per le differenze tra le fazioni Bombacci e Marabini-Graziadei da una parte, che voleva espellere Turati, e la fazione dei serratiani che volevano mantenere l’unità del partito con dentro anche Turati.
Alla fine, non potendo proseguire i loro obiettivi dentro il PSI, la frazione che seguiva pedissequamente le indicazioni della Internazionale comunista fu costretta alla scissione e alla fondazione del PcdI.
Naturalmente ampio spazio viene dato all’intervento di Filippo Turati (19 gennaio, ore 15 pomeridiane) che, in predicato di espulsione su indicazione dell’Internazionale Comunista, gode della simpatia postuma dell’autore: «L’anziano leader parla col sottile filo di ironia che ha sempre caratterizzato i suoi discorsi. Amante del ragionamento e delle memorie, Filippo offre di sé la solita impressione dell’eretico a cui piace andare controcorrente anche a costo di finire nel fuoco» (p. 71).
Il discorso di Turati al congresso, pp. 71-74, che sa di testamento e per tale viene qualificato, [«È stato un po’ il mio destino di essere sempre un imputato davanti a questo o a quel tribunale rivoluzionario, e quando un tribunale non ti schianta, e ti lascia ancora in vita, questo è davvero un tribunale mite a cui bisogna essere grati. … Il culto della violenza (della dittatura del proletariato che è o la dittatura della minoranza che è o tirannide o arbitrio, o è dittatura della maggioranza e non ha senso alcuno, e della persecuzione dell’eresia, dell’eresia creatrice che ha esaltato un partito di uomini liberi già ho parlato) … e fra qualche anno, quando anche il mito russo, della Rivoluzione russa, e quando questo mito, quello che è di religioso nei vostri animi, il mito bolscevico, o avrà fatto fallimento o sarà trasformato dalla forza delle cose … » (pp. 72-73)] contiene l’analisi della rivoluzione russa, della dittatura del proletariato, della lotta al dissenso come qualcosa che appartiene non ad una teoria politica ma al patrimonio fideistico di una religione che allora, e per lungi decenni dopo, sarà sembrata una boutade polemica ma che, di recente, è stata fatta propria persino da storici accademici di grande vaglia.
E infatti Youri Slezkine, docente di storia a Berkeley, ha scritto un libro fondamentale per la storiografia della Rivoluzione russa (LA CASA DEL GOVERNO. Una storia russa di utopia e terrore, Milano, Feltrinelli 2018) in cui grande è la confusione fra la lingua della chiesa e la lingua della rivoluzione; infatti, il libro si articola in parti che hanno come titolo L’attesa, Il compimento, Il Secondo Avvento, Il regno dei santi, Il giudizio finale, L’aldilà. E i rivoluzionari, diventati I predicatori, così vi sono descritti:
I profeti del vero giorno erano per lo più cristiani o socialisti. La maggior parte dei cristiani sembrava accettare il fatto che l’espressione ‘Secondo Avvento’ fosse una figura retorica e il simbolo di una redenzione rimandata all’infinito, ma una crescente minoranza, …, attendeva il giudizio finale nel corso della loro vita. Questa certezza era condivisa da quelli che associavano Babilonia con il capitalismo e aspettavano un’Apocalisse rivoluzionaria seguita dal regno della giustizia sociale … I due gruppi avevano molto in comune. Al loro interno, alcuni ritenevano che il socialismo rivoluzionario fosse una forma di cristianesimo: altri che il cristianesimo fosse una forma di socialismo rivoluzionario (p. 42).
Dubitiamo assai che Sleskine abbia letto l’intervento di Turati al congresso di Livorno e propendiamo, anzi ne siamo quasi certi, per l’attribuzione al capo del riformismo italiano una conoscenza, frutto anche della lunga convivenza con Anna Kuliscioff, del mondo rivoluzionario russo che gli aveva assicurato una conoscenza profetica delle sue tendenze di fondo.
E profetiche erano anche le parole con cui Turati chiuse il suo intervento: «Voi oggi temete di costruire per la borghesia …. Fate vostro il tanto peggio tanto meglio degli anarchici. Credete e sperate che dalla miseria crescente possa nascere la rivendicazione sociale. Non nascono che le guardie regie e il fascismo, la miseria, l’ignoranza e lo sfacelo» (p.73).
Essenziali, in quest’epoca di diffusa allergia alla storia, i profili dei protagonisti di quella lontana assise alle pagine 93-109 del libro.
Mauro Del Bue, nato a Reggio Emilia all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, è stato politico del PSI, craxiano integrale, parlamentare per più di vent’anni a cavallo del fine secolo appena trascorso.
Dopo il 2008, ripiegato nella sua Reggio Emilia ad incarichi di politica locale o alla direzione di importanti istituzioni culturali, Del Bue ha scritto alcune decine di libri, l’ultimo dei quali (La scissione comunista e le ragioni di Turati. Il Congresso di Livorno 15-21 gennaio 1921) esce in questa primavera 2021 a Reggio Calabria presso «Città Del Sole edizioni» di Franco Arcidiaco e Antonella Cuzzocrea.
Mauro Del Bue, La scissione comunista e le ragioni di Turati Il Congresso di Livorno 15-21 Gennaio 1921, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni 2021.
Da www.avantionline.it 8.2.21