Lo scorso 10 marzo, è stato l’anniversario dei 150 anni dalla morte di Giuseppe Mazzini, ma è stato completamente ignorato, nonostante fosse entrato nel sistema retorico delle celebrazioni. Viene il dubbio che l’oblio sarebbe sceso implacabile su di lui se la toponomastica non fosse scesa in suo soccorso con le quasi settemila intitolazioni di piazze e vie in ogni angolo d’Italia.
Il suo testo più celebre “Dei doveri dell’uomo” è praticamente introvabile, ammesso che qualcuno lo cerchi. D’altra parte, nemmeno con i suoi contemporanei ha conosciuto migliori fortune, anche perché passò buona parte della sua vita in carcere o in esilio, tra Londra e Ginevra. Quando morì, a Pisa nel 1872, si nascondeva sotto lo pseudonimo di George Brown per sfuggire agli esiti di vecchie condanne. Padre della Patria? Apostolo del Risorgimento? Sì, ma solo per pochi nostalgici del repubblicanesimo storico e per cultori e adepti della massoneria ufficiale.
Mazzini era repubblicano e, dopo un primo appello finito nel vuoto a Carlo Alberto combatté contro i Savoia e la monarchia. L’Italia che nasce, grazie anche al pragmatismo di Garibaldi e all’astuzia di Cavour, non può piacergli, perché non è una repubblica ma un regno, nato tra l’altro con il contributo di un despota come Napoleone III. Mazzini combatte per «una nazione una, indipendente, libera e repubblicana». Il suo è un patriottismo umanitario, teoricamente distante dal nazionalismo del fascismo, e che anzi per la prima volta ipotizza, con la Giovane Europa, gli Stati Uniti d’Europa. Tra le sue imprese, l’evanescente Repubblica romana del 1849, che governò in triumvirato con Carlo Armellini e Aurelio Saffi.
Il critico letterario Francesco De Sanctis, l’avrebbe definito in seguito come Mosè, “che condusse il popolo alla Terra promessa, ma non poté entrarvi”.
Paradossalmente il riconoscimento più lusinghiero gli giunse da un avversario, il celebre principe di Metternich-Winneburg che ebbe a dire: «Nessuno mi dette maggiori fastidi di un brigante italiano: magro, pallido, cencioso, ma eloquente come la tempesta, ardente come un apostolo, astuto come un ladro, disinvolto come un commediante, infaticabile come un innamorato, il quale ha nome: Giuseppe Mazzini».
Eppure, Mazzini fu tra i primi a credere e combattere per l’Italia e furono a lui devoti molti patrioti, Garibaldi compreso. Odiato da monarchici e cattolici non è mai riuscito a diventare un’icona pop. Patriota sì, ma senza l’aurea rivoluzionaria di un Garibaldi o leggendaria di un Cavour che, invece, riteneva inizialmente assurdo l’obiettivo dell’Unità d’Italia.
La sua biografia più lusinghiera arrivò solo a 43 anni dalla morte per mano di Gaetano Salvemini, forse ispirato da Michail Bakunin che l’aveva definito «l’ultimo sacerdote dell’idealismo religioso, metafisico e politico» e da Edmondo De Amicis, Giosuè Carducci e Alfredo Oriani.
Eppure, Crispi nel 1880 aveva profetizzato: «Tra cento anni chi scriverà la storia chiamerà il tempo nostro il secolo di Mazzini». Niente di tutto questo, solo frasi di circostanza e qualche stanca cerimonia di commemorazione, immancabilmente collegata ad anacronistiche emissioni filateliche.
I post-fascisti, invece, sempre a corto di personaggi di cui gloriarsi, seguono le orme di Giovanni Gentile e di Benito Mussolini e cercano di appropriarsene. Un giovane studioso di destra, Francesco Carlesi, ha appena pubblicato «Giuseppe Mazzini, un italiano», con la casa editrice postfascista Eclettica. Il Secolo d’Italia ha celebrato il libro e «l’eredità mazziniana, fatta di idea di patria e questione sociale che, oggi, nell’epoca del capitalismo finanziario, della modernità liquida, della globalizzazione, dell’attacco ai confini nazionali rischia di apparire ai più come inattuale e che, invece, proprio per questo merita di essere riscoperta pienamente e di far ritrovare a Mazzini il suo posto in una coscienza collettiva».
Ci sarebbe da riflettere su queste prese di posizione anticapitaliste della destra e magari trarne lezione, è veramente penosa l’immagine che sta dando in questi giorni il PD completamente allineato alle posizioni di Washington.
Su “La Verità” Marcello Veneziani ha scritto: «A 150 anni dalla sua morte, sopravvivono di lui nella memoria pubblica solo le strade, i corsi, le piazze a lui intestate. La storia, soprattutto quella risorgimentale, si è ritirata nella toponomastica. Gli ultimi leader politici che si ricordarono di lui furono il garibaldino Craxi, che lo paragonò ad Arafat, e lo storico Spadolini, repubblicano mazziniano a Salò e poi nel partito di La Malfa. Se il Risorgimento è ormai rimosso dalla memoria storica, Mazzini lo è doppiamente, senza bisogno di cancel culture. I viali Mazzini si perdono nel nulla».
La stessa rivoluzione dannunziana di Fiume e la Carta del Carnaro furono nebulosamente ispirate a Mazzini, il cui mito resta dunque vivo nella destra sociale.
La passione del Duce per Mazzini fu rivelata da Giuseppe Bottai, in un brano tratto dal suo diario dell’ottobre 1943 scriveva: «Spesso ho trovato il Duce, a Palazzo Venezia, immerso nelle folte pagine degli scritti di Mazzini. O meglio, v’immergeva, a ferire di pugnale, il suo metallico tagliacarte: e ne tirava fuori brandelli di Mazzini. A quando a quando il brandello antifrancese, antilluminista, antinglese, antisocialista etc. Brandelli, mai tutt’intero, nella sua viva, molteplice e pur varia personalità».
Antonio Gramsci e Piero Gobetti lo stroncarono più volte e Gramsci addirittura arrivò a definire il pensiero mazziniano «affermazioni nebulose» e «vuote chiacchiere» mentre Gobetti lo definì «romantico, vaporoso, impreciso».
Probabilmente, come ha scritto su Il Messaggero lo storico americano Roland Sarti, Mazzini «Ha commesso il grave peccato di rimanere fedele ai propri ideali repubblicani quando la maggioranza dei suoi seguaci aveva fatto la pace con la monarchia, che peraltro sarebbe stata disposta a perdonarlo, se fosse stato disposto a fare ammenda dei suoi peccati, dichiarandosi leale a Sua Maestà». E conclude: «La memoria di Mazzini si è affievolita con il passare del tempo. Peccato, perché il suo messaggio resta ancora oggi valido. La nazionalità resta il fondamento dell’ordine internazionale. Se oggi fosse vivo, forse si sentirebbe in sintonia con temi come il rispetto per la natura, la protezione dell’ambiente, i diritti delle donne, dei bambini, dei deboli, il movimento per la pace e per il disarmo. Tutti temi che si ricollegano a quell’etica religiosa che distingue il pensiero mazziniano da altre correnti del nostro tempo».