Domenica, 08 Dicembre 2024

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

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IL “VIZIETTO” E…L’INSULTO ALLA SCELTA SESSUALE

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Il lessico omofobico è sempre stato abbastanza ricco - dal biblico “sodomita” a un più abbottonato “invertito”, fino allo sguaiato quarto gradino della categorizzazione antropologica che Leonardo Sciascia metteva in bocca, “con rispetto parlando”, al padrino Mariano, ne “Il giorno della civetta” (Einaudi, Torino 1961), che di poco precede “i quaquaraquà”, e approssimativamente corrisponderebbe al siculo “jarrusu”.

A questo punto i francesi suggerirebbero di "mettre la pédale douce", perché il glossario potrebbe farsi troppo “sale” (“… pédé!”, “dirty faggot!”, “dreckige Schwuchtel!”, “maricón sucio”… - anche se potrebbe pure risolversi in un’auto-descrizione ironica, da differenziare in base al contesto, o al tono della voce). Al contrario, la sintassi, piuttosto rudimentale, s’è quasi sempre ridotta al repertorio di qualche insolente irrisione, anatema o a generiche massime aforistiche; e di conseguenza la retorica ne risultava relativamente miserrima, limitata a delle frasi stereotipate, fin troppo concise, in cui sembrava fosse stato detto tutto e di più, e con cui tutti dovessero semplicemente trovarsi d'accordo a priori.

Apparentemente, infatti, questa relativa povertà poteva contrastare con un’efficacia eloquente, la cui potenza espressiva non aveva, almeno in teoria, bisogno d’aggiungere nient’altro, poiché la sua maggiore forza consisteva appunto in una tacita, supposta, unanimità.

Dall’unanimità alla relativizzazione

Negli ultimi anni, tuttavia, la retorica omofobica sembra sia divenuta più sofisticata rispetto al  passato, seppure approssimativamente si dimostra meno violenta; e forse è proprio  la sua sintassi che s’è ampliata, con un corrispondente affinamento dei concetti espressi in proposito e, soprattutto, una maggiore consapevolezza di sé, quasi come se lo sviluppo della situazione culturale stia a testimoniare un nuovo spazio retorico del tutto inedito.

Dalla quasi unanimità del discorso omofobico, presentata quale verità inoppugnabile, o sufficiente trasparente evidenza, non necessaria di ulteriori prove, si è passati a una come un’altra, discutibile semmai, opinione, quindi eventualmente da approfondire ovvero da meglio articolare. Ed è questa esigenza di maggiore argomentazione razionalizzata che ha dato l’avvio a una nuova retorica di questo logos, logoro nella sua precedente consuetudine, ma insolito nel suo più recente rivestimento che tende, in ogni caso, a non rinunciare né al pathos né alla fantasia, di fronte a un profondo disorientamento linguistico, addentratosi non tanto in una fase di recessione, quanto in una di travolgente cambiamento, nella quale il ricorso ai passati strumenti idiomatici va implacabilmente riadattato, e rimodellato alla sua attuale immagine sociale, senza perderne, sia pur senza giustificarli, i presupposti più radicati e radicali.

Uno stereotipo in crisi?

Questo doppio binario, di avversità e riflessività, avrebbe messo in crisi il discorso omofobico, rendendolo profondamente disagevole e persino imbarazzante, al punto di smarrirne senso e significato. E questo, in fondo, anche perché quella omofobica non è neppure una vera “ideologia”, come la marxista o la cristiana, per esempio, e nemmanco un’aggregazione sociale, più o meno identificata o identificabile, e tantomeno un corpus dottrinario, come quello psicanalitico, con una bibliografia a cui rifarsi inappellabilmente.

Si tratta piuttosto di qualcosa di molto frammentato, di frasi fatte ed eterogenee formulazioni stantie, per lo più battute buttate lì, o pronunciate qua e là, un po’ in tutti gli ambiti della vita, al di là di tutte le divisioni di classe, da ognuno in generale e da nessuno in particolare, talvolta anche senza pensarci, magari da qualcuno che non reputa siano offensive e non ha neppure intenzione d’offendere. Qualcuno che non considererebbe il proprio comportamento strettamente o semplicemente “omofobo”, ostile cioè a un orientamento sessuale sulla base irrazionale d’un pregiudizio.

Omofobia?

Il neologismo coniato da George Weinberg, nel suo libro “Society and the Healthy Homosexual” (1971), è piuttosto infelice perché, anche dal punto di vista etimologico, sta per “paura dell’uguale” (homòs, ὁμός) e basta, mentre fòbos (φόβος) perde il suo connotato clinico (come in xenofobia), trattandosi piuttosto d’un’avversione;  diviene così alquanto incomprensibile il perché sia stato scartato il precedente “omoerotofobia” del dottor Wainwright Churchill ("Homosexual behavior among males", 1967), altrettanto impreciso per quanto riguarda il secondo aspetto di disgusto e repulsione, ma maggiormente coerente con la motivazione di tanta insofferenza verso una determinata preferenza sessuale.

Pregiudizio o discriminazione?

La genericità dell’accezione ne evidenzia soltanto l’atteggiamento discriminatorio, che potrebbe non concretizzarsi in pratica corrente, ma solo a parole, fatua, restando di fatto pur sempre pregiudiziale tout court. Sostanzialmente, è la stessa scontata onnipresenza di questo linguaggio che, allo stesso tempo, lo rende totalmente evanescente, potendosi oggettivare soltanto in quegli ambiti deputati da cui può trarre l’essenza medesima delle sue argomentazioni, ovvero ricondurre a quei serbatoi di stagnazione in cui ciascuno può rimescolare a piacimento il materiale necessario a sostenere le tesi più astruse.

La dimensione psicopatologica

La dimensione psicopatologica coinvolgerebbe ovviamente il livello di equilibrio del singolo. Pertanto, i più alti livelli di omofobia sarebbero riscontrabili proprio in quanti sono in lotta con una loro forte omosessualità, repressa o latente. - E per omofobia potrebbe intendersi anche la paura, “nevrotica”, di venire considerati omosessuali, con tutti i conseguenti comportamenti volti all’evitamento, a mo’ di “meccanismo di difesa”, d’un tale equivoco e delle situazioni a questo associabili.

L’evitamento della parola

In una lettera datata ad aprile 1935, Freud rassicura una madre preoccupata per la preferenza sessuale del figlio, dicendosi: «molto colpito dal fatto che non usi mai questo termine nel darmi le informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo evita? L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante; non può essere classificata come una malattia; riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni erano omosessuali, tra di loro c’erano grandi uomini. (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc).».

Quale trattamento… e di che?

Aggiunge il suo personale pensiero in relazione a un qualche dubbio “trattamento” e su come sia: «una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – e anche una crudeltà. Se non mi crede, legga i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.».

Terapia dei conflitti

Per cui la prospettiva che delinea il padre della psicanalisi, con molto equilibrio, si limita alla benevola considerazione: «In un certo numero di casi riusciamo a sviluppare i semi degradati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, ma nella maggior parte dei  casi non è più possibile. Dipende dal tipo e dall’età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto. Quello che l’analisi può fare per suo figlio è un’altra cosa. Se lui è infelice, nevrotico, lacerato da conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace della mente, piena efficienza, sia che rimanga un omosessuale, sia che diventi eterosessuale.».

La minaccia del diverso

Al nevrotico fanno seguito certe "personalità autoritarie" e quelle rigide, ma insicure, che si sentono minacciate dal "diverso da sé" [Alan M. Klein, Little Big Men: Bodybuilding Subculture and Gender Construction, SUNY Press, 1993;  Janell L. Carroll, Sexuality Now: Embracing Diversity, Cengage Learning, 2011], quantunque, ovviamente, non solo, o non proprio, omosessuale.

Xenofobia ed etnocentrismo

La qualcosa potrebbe sconfinare e confondersi nell’illogicità di quella xenofobia che non comporta la supervalutazione della propria cultura e, di conseguenza, la svalutazione di quella altrui, nel qual caso, con il sociologo William Graham Sumner (Folkways: a study of the sociological importance of usages, manners, customs, mores, and morals, Ginn and Co., Boston 1906), si parlerebbe di puro etnocentrismo.

Aporofobia

Qualora i membri di altre etnie provenissero da paesi poco sviluppati economicamente, oltre alle differenze culturali, sarebbe la loro indigenza a poter essere associata ad atti criminali e dunque avvertita come un problema di sicurezza. In tal caso il pregiudizio razziale trascende in quello socio-economico, tanto da giustificare il neologismo spagnolo aporofobia.

Socio-patofobia

La ripugnanza potrebbe rivolgersi inoltre verso certe condizioni morbose socialmente caratterizzate, come l'AIDS (sierofobia da HIV), tubercolosi polmonare, malattie veneree o in genere da contagio (nosofobia o patofobia, da distinguere però dalle preoccupazioni ipocondriache).

Una discriminazione istituzionalizzata?

Un accademico americano che lavora nei campi della teoria critica, della letteratura e della cultura moderna e postmoderna, Calvin Thomas, si è particolarmente concentrano sul tema del genere, sulla sessualità e sul corpo (con un interesse particolare per le risposte "dirette" alla teoria queer), in "Straight with a Twist": «il terrore di essere considerati omosessuali domina le menti dei "normali eterosessuali", perché proprio questo terrore costituisce la mente di un "normale eterosessuale". È esattamente questo orrore per le "abiette" passioni omosessuali, prodotto e rinforzato dalla società, che crea e fa perdurare le mentalità dei "normali eterosessuali" in quanto tali [...]» (Straight with a Twist: Queer Theory and the Subject of Heterosexuality, University of Illinois Press, Champaign 2000 - p.27).

L'omofobia interiorizzata

Per contro, l'accettazione da parte degli interessati (gay e lesbiche) di atteggiamenti discriminatori, ed etichette negative, favorisce una sorta d’«interiorizzazione» di quel pregiudizio e porta, sia pur inconsapevolmente, a negare, contrastare, o a vivere con difficoltà, il proprio orientamento sessuale.

Le “Accademie” delle Idee omofobiche

Se, in passato, il dissertare omofobico ricorreva soprattutto a una fraseologia che aveva in comune pretesti pseudo-teorici, direttamente ricollegabili a morale ed etica, teologia o sanità, e discettava soprattutto di naturale e innaturale, peccato o dissolutezza, malattia o difetto, ormai, da diversi decenni, le discipline che s’invocano sono quelle più facilmente giocabili sul piano della correttezza scientifica, come antropologia, sociologia, psicoanalisi, e tutte con profonde riflessioni che si ripercuotono sull’ordine simbolico della differenziazione sessuale, dell’alterità, della perversione, del narcisismo.

Un eccesso di narcisismo?

E, anche se non tutti i narcisisti sono omosessuali, poiché l’oggetto amato rappresenta un’immagine di sé stesso, Freud aveva intravisto una delle cause dell’omosessualità in un eccesso di narcisismo (Zur Einführung des Narzißmus, 1914).

Il quadro pseudo-teorico del discorso omofobico s’è allora ricomposto, senza dubbio, in modo più “erudito”, e la, pur sempre relativa, importanza di tutto il sistema argomentativo ha man mano osservato un progressivo incremento nel senso d’una più sottile strumentalizzazione biunivoca, sia per inasprire le posizioni più conservatrici come anche per attenuarne il carico espressivo con litoti ed eufemismi.

Una retorica “neutrale”?

Adoperando perifrasi e negazioni di quanto avrebbe un irruento senso contrario, si evitano banalità e crudezze troppo disturbanti, od oscene, arrivando a mantenere un'apparenza di neutralità che potrebbe anche essere percepita quasi veritiera, od oggettiva, proprio perché scientifica. Un abuso di tali modalità pseudo-teoriche però consente anche alle posizioni più partigiane ed estreme di riuscire facilmente a spacciarsi per discussioni di esperti del tutto disinteressati alle relative ideologie che vi sono sottese.

Dall’ipocrisia alla chiarezza

Le cose sarebbero, tuttavia, cambiate negli anni e dottrine, discipline e scienze a cui fare ricorso adesso non sono più le stesse d’un passato ormai remoto. E segno dei tempi è che, quando periodicamente le autorità cattoliche intendono rinnovare, ma con opportune cautele, la secolare condanna dell'omosessualità, giudiziosamente evitano le immagini violente, così frequenti in passato, e addolciscono la pillola con sagge astensioni dal giudizio oppure con farisaiche posizioni di comodo che strizzano l’occhio un po’ in tutte le direzioni.

L’ipocrisia, del resto, rimane parte essenziale delle convenzioni sociali, e una sua pratica, sempre esercitata con discrezione, potrebbe persino rivelarsi costruttiva, dalla benevola concessione di private benedizioni all’assortimento di coppie («Chi sono io per giudicare…?») al plateale riconoscimento in ambito seminaristico («Ratio formationis sacerdotalis») di consuetudini uraniste (“frociaggine”).

Non essendo l'italiano la sua lingua madre, probabilmente il Papa avrebbe dovuto esprimersi diversamente? E come, se i pontefici sono uomini, e come tali si comportano, anche quando parlano e hanno intenzione di farsi capire senza fraintendimenti?

Frociaggine: da frocio

Se poi si è abituati a un linguaggio irrituale, anche nell’esprimersi nella lingua natia, il castigliano d’Argentina, a maggior ragione non dovrebbe meravigliare il ricorso a una parola che nasce proprio nella Roma dei papi, con una storia etimologica abbastanza complicata ed eterogenea, e tutta comunque romana e papalina. Senza escludere neanche delle connotazioni positive nel venire impiegata persino a mo’ di un vero complimento: idiomatica perciò la condizione di chi se ne vanta pubblicamente nel “Fare il frocio (sì, ma) col culo degli altri”!

Fròcio: questo termine romanesco, per omosessuale, o pederasta passivo, è consuetudinariamente ritenuto abbastanza “triviale”, eppure da buon sostantivo maschile, prevede un accrescitivo: frocióne, accanto al diminutivo: frocétto. Attestato pure al femminile (frocia), come "frociata" indica un rapporto omosessuale, "Froceria" il relativo comportamento, mentre “Frociàggine” ne ribadisce l’essenza, sempre volgare, e forse proprio per questo tanto espressiva.

Storia d’una parola

Ma non sembra sia sempre stato così, poiché le prime attestazioni scritte, risalenti all’inizio del XIX secolo, durante l’occupazione francese di Roma, in stornelli, pasquinate e sonetti, definiscono quale “frocio” lo straniero tout court, non necessariamente omosessuale. E sono innumerevoli gli esempi che dimostrano come anche il livello più basso d’una lingua possa arricchirsi di prestiti provenienti da altri idiomi, a cominciare da quel diffusissimo, ed equivoco, “brindisi!”, che non ha niente a che fare con la Puglia, provenendo dal tedesco (ich) bring dir's (letteralmente, lo offro a te, “bevo alla tua salute”), trasmesso dai lanzichenecchi agli spagnoli nel sec. XVI,  per finire alla definizione di “crucco” per tedesco, derivata dal serbocroato. E proprio come “brindisi!” e stato introdotto dai mercenari svizzeri in chiave augurale, qualche loro ironia su qualche frosch potrebbe essere stata imitata, nell’assoluta incomprensione del significato originario della parola, alla stessa maniera di come crucco è stato impiegato nell’inconsapevolezza d’un'etimologia croata, che ha a che fare col quotidiano “pane” (kruh).

L’etimo

Tra le possibili spiegazioni etimologiche della parola, comunque, quelle vagliate quali più probabili la mettono in relazione con i costumi sessuali dei soldati del papa, quei mercenari svizzeri, spesso ubriachi, che appunto per questo avevano arrossate le narici, divenute, per estensione, quasi equine froge sbuffanti, con esplicito riferimento all’emettere aria con forza; e, da questa sorta d’insofferente impazienza etilica, l’epiteto di frogioni, trasformato, per palatalizzazione della consonante velare, in frocioni. Le “froce der naso”, poi, le guardie svizzere, che avevano fama di omosessuali, le mettevano ben in vista anche perché di statura superiore alla media.

Floscio

Altra ipotesi, mediante la romanesca rotacizzazione del termine floscio, dallo spagnolo flojo (floxo), in relazione all’indole fiacca o a mollezza di carattere (anche nel rapporto con l’altro sesso): froscio. Più avanti, quando il frocio diventa, per estensione, l’infame, l’essere spregevole, fino a restringere il significato a chi dal popolo è considerato il più spregevole di tutti: il sodomita passivo, allora può esserci stata una definitiva assimilazione tra floscio e froscio.

In alcuni dialetti, "frociare" corrisponde a "fare le smorfie" (e dunque le smorfiose, riferendosi ad atteggiamenti effeminati associati ai maschi omosessuali), e lo stesso varrebbe per il latino "flos", fiore, che indica delicatezza e una stereotipata mancanza di virilità.

Feroci froci!

I lanzichenecchi, che misero a sacco Roma nel 1527,  stuprando indistintamente donne e uomini, si dimostrarono talmente “feroci” da meritare un epiteto apposito con sincope della prima vocale?

In principio fu xenofobia

Ancora intorno alla metà del secolo XIX, questo termine veniva usato, molto genericamente, contro tutti gli stranieri. E solo successivamente il disprezzo xenofobo venne ridimensionato in un più specifico e ulteriore slittamento di significato. “Bigna davvero, che 'sti froci matti/ che da tutti son detti sanculotti/ pensino che de stucco semo fatti/ che vonno venì a Roma a fà scialotti.” (Emilio Del Cerro: Roma che ride, Roux e Viarengo, Torino 1904 - p. 76).

Il gergo malavitoso

Soprattutto dopo la rielaborazione metabolizzata in seno al gergo malavitoso, da un vago “uomo spregevole”, in cui non ci si riconosceva, si finì per indicare quell’abietto per eccellenza, perché effeminato omosessuale passivo.

Soltanto agli inizi del secolo scorso, Emanuele Mirabella (in Mala vita: gergo, camorra e costumi degli affiliati con 4500 voci della lingua furbesca in ordine alfabetico, F. Perrella, Napoli 1910) lo registrava nel codice comune dei criminali centromeridionali, glossandolo appunto come “effeminato”, in un’oscillazione tra la grafia frocio e quella froscio.

Disprezzo antifrancese

Proprio questa grafia dovrebbe farci soffermare maggiormente su un’intenzione particolarmente dispregiativa nei confronti degli occupanti stranieri, che agli inizi del XIX secolo furono esclusivamente francesi: da “français”, attraverso un’evidente storpiatura dialettale della lettura “fronsé” che, imitando e la erre e la pronuncia d’oltralpe, venne forse biascicata fronsce.

Liberté, égalité, “fronsceté”

Che a quell'epoca i “froci” fossero sì francesi, però “eterosessuali”, lo rivelano i versi d’uno stornello antinapoleonico di quegli stessi anni, raccolto dall’attivo ricercatore di curiosità storico-letterarie Emilio Del Cerro, pseudonimo di Nicola Nicèforo: “Fiore de pera;/ sto frocio che a mia fija fa la mira,/ ha voja de cenà l'urtima sera.” (Roma che ride, - p. 79).

Antigermanico

Dopo appena un quarto di secolo, il significato di questa parola tende a quell’estensione più larga, che comprende indistintamente tutti gli occupanti stranieri, compresi gli “svizzeri” del Papa. Anzi sarebbe stata forse proprio la presenza di questo appariscente contingente di lingua tedesca a fornire un senso antonomastico di tedesco, riconosciuto da Filippo Chiappini ancora nel “Vocabolario romanesco” del 1945 (Leonardo da Vinci, Roma). In una pasquinata, scritta durante il conclave del 1823 contro il cardinale bavarese Höfflin, si taceva della preferenza sessuale, rimproverando infatti dell’altro: “Non ve fidate tanto de sti froci:/ so de fà bene ar prossimo incapaci:/ so a pagà tardi, ed a piglià veloci”.

Frosh, frog, faggot

E, a questo punto, c’è pure chi propone una derivazione diretta dal tedesco frosch (ranocchio), che ha un parallelo nell’inglese frog, con una qualche assonanza con  faggot  e soprattutto con l’italiano frogia. Insomma da français, attraverso la storpiatura satirica di quanto suonava come “fronsé", il mantenimento del fonema “sc”, tipico di chi imita burlescamente la pronuncia francese, avrebbe reso “fronsce” (“francese”) "froscé", simile a frosch (“ranocchio”, in tedesco), e la traduzione inglese frog avrebbe riprodotto il fonema “froge”.

The Fountain of the Frogs

Se è mai esistita una “fontana delle froge”, presso la quale si sarebbero miticamente riuniti gli omosessuali romani, questa è molto meno antica di quanto si possa pensare, poiché è stata eretta in stile eclettico nel 1924. Si trova al centro di Piazza Mincio, tra i palazzi degli Ambasciatori, quello del Ragno e il villino delle Fate, nel cuore del piccolo rione conosciuto come “Coppedè”, dal nome dell'architetto, scultore e decoratore fiorentino del Liberty, Gino Coppedè.

Le froge delle Frogs

Prendendo il nome dalle dodici rane che la adornano, è internazionalmente conosciuta come “The Fountain of the Frogs”, in quanto, nel rispecchiare perfettamente le suggestioni floreali e l'atmosfera magica degli edifici circostanti, rende pure omaggio alle fontane del Bernini. Le rane superiori rappresenterebbero, con buona probabilità, l’equivalente delle tartarughe di piazza Mattei, mentre le api richiamano immediatamente la fontana di piazza Barberini. Attorno al pilastro, quattro coppie di figure maschili, dai capelli al vento e con reti da pesca in mano, soffiano spruzzi e sostengono grandi vasche a forma di conchiglia, nelle quali delle altre rane (frogs) versano, a loro volta, acqua dalle narici (froge).

Letteratura e cinema neorealista

Sarebbe, insomma, anche questa un’altra testimonianza che tenderebbe quasi a escludere una vecchia datazione del largo uso del termine in questione, in specie nel peculiare significato di “omosessuale”, ed effeminato, con il quale ci sarebbe infine  giunto attraverso un progressivo slittamento di significati abbastanza diversi.

La diffusione poi dell’epiteto, almeno con questo specifico senso (dispregiativo?), in tutta Italia, sembra sia avvenuta molto di recente, addirittura soltanto dopo la seconda guerra mondiale, e grazie soprattutto al cinema “neorealista” e certi romanzi, come, su tutti, "Ragazzi di vita" (1955) e “Una vita violenta” (1959) di P. P. Pasolini; e poi Moravia, Arbasino, Busi, Saba: “… è forse il mio/ incauto amarti un sacrilegio?” (“Angelo”).

Felice chi è diverso

Sulla falsariga poetica, in un certo senso, e per molti versi, più significativa appare la riflessione glottologica di quell’intervistato nel documentario di Gianni Amelio del 2014, che riprende un verso di Sandro Penna (“Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune”): “L’importazione della parola gay è stato come mettere una luce al neon nelle cucine, dove tutto diventa piatto, è stato come un cemento che ha tolto la diversità dalle diversità”.

Del resto, se ciò che viene percepito come trasgressione non si dovesse poi dimostrare trasgressivo perderebbe gran parte della sua essenzialità. Cambiando le parole d’uso si modifica pure la sostanza della loro accezione semantica.

La secolarizzazione d’un vizietto

Una vera retorica omofobica prende a prestito anche certi discorsi molto meno colti, e quei luoghi comuni, in senso tecnico, che si riferiscono, in maniera preponderante, alla più vasta opinione generale relativa all’immagine d’una sorta di psico-socio-teodicea dell’eterosessualità.

L’eterosessismo eteronormativo

A priori”, l’eterosessismo eteronormativo risulta il luogo deputato alla fede profonda nella teleologia del desiderio che finalizza gli individui, “binari”, gli uni verso gli altri, in base a un unico credo, corrispondente a una distinzione certa, in senso unidirezionale e reciproco, uomo/donna e viceversa. Tutte le altre scorciatoie costituiranno incidenti di percorso, devianze, oppure influenze malate o maligne.

Quid est malum?

Il confiteor di quest’antropologia popolare non esclude tappe intermedie di esitazioni fugaci che possono far inciampare lungo il percorso, per poi ricredersi subito dopo in una magari definitiva realizzazione, tranne quei casi di gravi morbosità destinati al peggioramento fino alle estreme conseguenze.

E il male non è altro che corruzione: della misura, della forma o dell’ordine naturale…” (De natura boni, 4).

L'uomo è fatto per la donna e, soprattutto, la donna è fatta per l'uomo, fin dall’inizio dei tempi. Da qui la deduzione circa l’essenza dell’omofobia “stricto sensu”, in fondo nient’altro se non preoccupata sensazione di quanto l'omosessualità metta in pericolo questa finalità eterosessuale del desiderio, con grave rischio per la sopravvivenza medesima della specie, della patria, della famiglia, per via d’una sterilità da contagio, serpeggiante e minacciosa, che, se fatta dilagare diffusamente, potrebbe compromettere la stessa vita su questo pianeta.

Un delirio paranoide

La paranoia della marginalità e del tradimento percepisce il non etero come un oppositore della comunità dei credenti, un pericoloso eretico erotico, in cerca di proseliti, che ordisce trappole, tesse trame, forma lobby, mette a repentaglio  l’intero ordine universale.

Misoginia

Forse, c’è davvero da chiedersi anche se tutta questa retorica omofobica non si basi piuttosto su una strisciante misoginia di fondo, alla quale è indirettamente, ma fortemente, ricollegabile. Da questo punto di vista, o dell’ordine naturale, varrebbe la pena di valutare quanto per un uomo possa essere umiliante venire considerato effeminato, o persino passare per donna, agli occhi d’un’altra persona, e in che misura e forma, a seconda del genere del giudicante.

L'immagine dell'omosessuale “maschio”, si fa per dire, ispira scherno, se non disprezzo, molto spesso esclusivamente agli altri maschi, che magari la loro effeminatezza riescono a mascherarla meglio?

Cosa ispira, al contrario, la donna omosessuale quando appare più mascolina, alle altre donne e agli uomini, a seconda, a loro volta, se etero od omo?

Che si tratti, al di là dello scandalo, d’un'orgogliosa impostura e semplicemente perché si esercita il rifiuto di restare al proprio posto, in quello “giusto” (dell’ordine naturale) assegnato dalla condizione iniziale d’una potenziale riproduzione biologica?

Sono, in fondo, reversibili e malleabili questi fondamenti sessisti, se inseriti singolarmente tra le altre varie immagini della retorica omofobica?

Erastès ed eròmenos

Gli uni verrebbero criticati perché meno virili; ma in che percentuale? Visto che qualche aspetto dell’omosessualità non passiva (erastès, ἐραστής) potrebbe perfino venire giudicato eccessivo, specialmente se ci si dedica a certi sport (bodybuilding, in primis) e, chissà, pure inautentico, o artificiale, nei gusti estetici.  

Di contro, la donna omosessuale, se è femminile, lo è, difatti, fin troppo, e il suo fascino avrebbe addirittura qualcosa di diabolico e velenoso?

Corruzione della misura

Insomma, verrebbe da concludere che nessuna “misura” sarebbe opportuna. L’uomo dev’essere virile, sì, ma né troppo né troppo poco, e la donna idem, poiché se per caso le persone omosessuali si limitano a una presunta felice “forma” di virilità o femminilità, potrebbero essere sospettate di volersi confondere tra la folla anonima per meglio ingannare il mondo ignaro della loro subdola sottigliezza e costringere gli altri, eterosessuali, alla coercizione di dover scegliere chi è più riconoscibile, e in questo senso quindi più rassicurante.

Il vizietto un po’ di tutti e di nessuno

Il discorso omofobico nasconde spesso anche una diversa percezione della “diversità”, velata da una retorica xenofoba, cosicché il “vizietto” variamente percepito francese, diviene italiano nel XVI secolo, inglese nel XVIII e XIX secolo, e tedesco all'inizio del XX.

Opera di altri, ma non d’un altro qualunque, sempre uno straniero, per di più rivale e, in quel determinato momento, pure dominante. La stigmatizzazione traduce l’ostilità in una simbolica compensazione tesa a svilire un angoscioso potere verso il quale ci si sente impotenti.

Una vera o presunta “americanizzazione” degli ambienti omosessuali è molto spesso rappresentata quale argomento a sfavore. Nell’Africa nera, l’omosessualità è molto spesso presentata come un traviamento legato ai bianchi, e viceversa, con ripercussioni evidenti in un’astensione quasi dalla cura dell’AIDS, sentito come una questione omosessuale, e quindi, a seconda, dei bianchi o dei neri, in un turbinio di rafforzamento dello stigma omosessuale, razziale e patofobico.

Odio sociale

L’odio sociale s’inserisce nella comune retorica omofobica, come per i proletari dell’Ottocento, nel tacciare l’omosessualità quale corruzione borghese, od opera delle classi lavoratrici sempre immorali, per i borghesi di quell’epoca, oppure dell’aristocrazia, inevitabilmente decadente un po’ per tutti, borghesi e proletari.

Nell’accentuare una modalità di distinzione sociale, il gusto per il lusso, e la lussuria, propri delle classi benestanti, già tendenzialmente autoescludentesi, si mette in risalto ogni tipo di disinvoltura estetica e comportamentale. Così, come privilegiati ed ebrei, gli omosessuali potrebbero rappresentare una potente minoranza che domina l’economia, la politica, i media, l’arte. Una vera e propria lobby insomma.

Il rifiuto dell'alterità, come chiusura nella torre d’avorio del narcisismo, pure etimologicamente “amore per l’uguale”, non è che un ripiegamento su sé stessi, in un ghetto, eppure in quella strategia che permette tuttavia di dispiegare tutte le conseguenze desiderate a partire dalla definizione normativa prescelta, e al contempo rinchiudere l'ente medesimo nella sua presunta essenza.

Che sia imposta, o semplicemente posta, con consapevole e assoluta visione, e divisione, del mondo sociale, viene immediatamente estesa alle altre realtà più diverse ed eterogenee, in un accorpamento assai complesso e confuso in cui finiscono per convergere tutte le trasgressioni, dissolutezze, perversioni che alla debolezza del pensiero oppongono la forza dell’impertinenza.


 

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