Se è valido l'assunto che il sacro si mimetizzi nel profano (e talvolta persino nel banale), è anche vero che l’eventuale presenza sua, o di suoi segreti, debba venire decifrata per mezzo dell'ermeneutica. E ciò corrisponde all’approccio accademico di Mircea Eliade all’esoterismo in genere, e al Sēfer Yĕṣīrāh (Libro della Formazione), in particolare. E, per spiegare il Maaseh Bereishit (“resoconto della creazione”, in Genesi) e il Maaseh Merkavah (“resoconto del carro”, in riferimento ai quattro "viventi", o chayot, del Trono di Dio, descritti da Ezechiele), Maimonide compilò i tre volumi della Guida (dei perplessi) Moreh Nevukhim.
Il testo fondamentale del pensiero cabalistico, lo Zohar (Splendore), propone di studiare la Tōrāh (insegnamento) procedendo lungo quattro gradi di interpretazione (esegesi), che dall’acrostico delle rispettive lettere iniziali (le consonanti: PRDS in ebraico “frutteto”), vengono indicati quali “PaRaDiSo” (Pardes): Peshat (semplice): letterale; Remez (allusione): allegorico; Drash (esposizione): retorico od omiletico (in relazione ai significati rabbinici midrashici e a paragoni immaginativi di parole); Sod (segreto): metafisico.
Il preludio, tuttavia, de “L’undicesimo gioco (di Abulafia)” (Città del Sole ed., Reggio C. 2024) di Mauro Campello, sostanzialmente, ci depista… tra Boaz, severità (disciplina, controllo e dominio: Binah, Geburah e Hod) e Jachin, misericordia (compassione e "lasciare che le cose siano": Chokmah, Chesed e Netzach), sul pilastro centrale della mitezza, armonia, unità ed equilibrio delle sfere che gravitano nell’atomo centrale del segno dell’infinito (una sorta di otto orizzontale: lemniscata), laddove riposano i vari livelli della coscienza (Kether, Tiphereth, Jesod e Malkuth); e poi Hieronymus Bosch (Il giardino delle delizie: di nuovo il Pardes!), l’apostolo Filippo e il suo apocrifo, il vate ceco J. L. Borges e il suo Aleph, un personaggio creato da Philip K. Dick (nel film di Ridley Scott), e ancora: il palindromo Sodrecasacerdos (Marinus), Selenio Theosophos, Horn Knufs, il quadrato magico del Sator …
Il decimo degli agrapha (ἄγραφα, “non scritti”, dunque, non contenuti nei vangeli canonici), si pronuncia sull’inseparabilità: «…Per questo motivo né i buoni sono buoni, né i cattivi sono cattivi, né la vita è vita, né la morte è morte».
La citazione da “I Teologi” (ne L’Aleph, 1949) potrebbe essere una glossa ai versetti finali del nono capitolo dell’Epistola agli Ebrei: «ἅπαξ προσενεχθεὶς εἰς τὸ πολλῶν ἀνενεγκεῖν ἁμαρτίας» (9, 28), “dove si dice che Gesù non fu sacrificato molte volte dal principio del mondo, ma una sola nella consumazione dei secoli”; ma pure un’allusione alle ripetitive lamentazioni e vane giaculatorie dei “gentili” (in Matteo, 6: 7: «δοκοῦσιν γὰρ ὅτι ἐν τῇ πολυλογίᾳ αὐτῶν εἰσακουσθήσονται·»).
Una possibile riparazione?
«All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.» è la frase concepita dall’attore Rutger Hauer, che l’ha pronunciata rivestendo i panni del personaggio del replicante Roy Batty, a chiusura del celebre monologo: «I've seen things you people wouldn't believe…», nella trasposizione cinematografica di “Do Androids Dream of Electric Sheep?”.
Ma perché rispondere al quesito posto da Raf e Bigazzi (Cosa resterà degli anni ’80?), percorrendo il sentiero, tra Chesed (pietas) e Netzach (continuità), col quale connettere quelle emozioni che rendono felice, o piacevole, l’individualità umana?
Questo sentiero di Kaph corrisponde al “palmo della mano” (una sorta di psicochirologia alla Julius Spier?) che gira la “Ruota della fortuna” (decimo arcano dei Tarocchi) nel quaternario materiale, i cui dieci raggi costituiscono la manifestazione della fisicità di Malkuth.
“Anni come giorni son volati via/ brevi fotogrammi o treni in galleria…”: Netzach!
La settima delle dieci Sephiroth nel sistema mistico ebraico si trova sotto Chesed ("amorevole gentilezza"), alla base del "Pilastro della Misericordia" che comprende anche Chokmah (saggezza), stando geometricamente di fronte a Hod (splendore, gloria).
In astrologia, il sentiero di Kaph è quel Giove fautore del maggior beneficio materiale ed economico.
Dopodiché, la Luce incomincia a risalire, e da tale stazione finale di discesa del flusso luminoso di tutte le Sephiroth (Malkuth), il processo di emanazione deve capovolgersi; è dunque il luogo (spazio), e/o il momento (tempo), di svolta in cui tutte le creature, oltre che a ricevere, devono imparare a dare!
“… Anni bucati e distratti noi vittime di noi/ ora però ci costa il non amarsi più…”: Chesed!
La pietà devozionale verso Dio viene compensata dalla misericordia di Dio verso l'umanità; e, in quest'ultimo senso di "carità", è considerata, oltre che una virtù di per sé, anche per il suo contributo alla riparazione del mondo (tikkun olam).
L’Antico dei Giorni
Se la Stella Microcosmica, che guida il Reale Essere della nostra sostanza interiore, emana anch’essa dall’Ain Soph, le dieci sephiroth non possono comprendersi in un unico piano, perché la loro natura è quadrupla.
Ciò si ripercuote nella mutua compenetrazione delle sfere, che senza confondersi, consentono lo svolgimento della nostra umanità solare nelle quattro dimensioni di: Atziluth (divine emanazioni), Briah (creazione dei Troni), Yetzirah (formazione degli Angeli), Assiah (azione materiale).
“… Noi siamo sempre più soli singole metà…”.
Il segno (stella) a sei punte del Macrocosmo è composto dal Macroprosopo (Arikh Anpin), di sei Sephiroth, e dal Microprosopo (Zauir Anpin), che risplende solo della riflessione del primo (Arikh Anpin).
Ze`ir Anpin, o Zauir Anpin, in aramaico significa "Contegno minore/ Piccolo volto", ed è, nella Cabala, un aspetto rivelato di Dio che comprende gli attributi emozionali delle sei sephiroth: Chesed, Gevurah, Tiphereth, Netzach, Hod e Yesod.
Arich Anpin, o Arikh Anpin, in aramaico: "Viso lungo/ Contegno esteso", implica anche "L'Infinitamente Paziente", un aspetto dell'emanazione identificato con l'attributo della sephirah della Volontà Divina, Kether.
Senza addentrarci nelle implicazioni cabalistiche delle due fasi generali dell'ordine dei mondi spirituali discendenti (Olamot)
- [di Olam HaTohu ("il mondo del caos") e Olam HaTikun ("il mondo della correzione"), ossia Tohu-Tikun, che sottendono i processi fisici e spirituali di esilio (Galut) e redenzione (Geulah), il significato delle 613 mitzvòt (precetti ebraici), la rettifica messianica dell'esistenza, l'origine del libero arbitrio e il reame di Qelipah (guscio), causato da Shevirat HaKelim (Infrangimento dei Vasi di Tohu)…] -,
la dimensione interiore Arich Anpin, quale Partzuf (persona primaria, tra le altre cinque divine) viene identificata come il Partzuf ʿAtīq yōmīn ("Antico dei Giorni", παλαιὸς ἡμερῶν, in Daniele 7: 9, 13, 22), correlato, ma trascendente (sinonimo di Gioia Divina interiore, la "Volontà delle Volontà/ Volontà Primaria"), la causa più incontaminata della Creazione…
Severità/ Misericordia= Forza/ Giustizia?
“… Anni vuoti come lattine abbandonate là/ ora che siamo alla fine, noi, di questa eternità…”.
Nella Creazione discende la gerarchia lineare della “forza” vitale, quale substrato nascosto in modalità progressivamente più occulta, con processi dinamici di inter-inclusione, analoghi all'involucro d’un'anima in un corpo inferiore.
Quando la Cabala venne diffusa in una formulazione connessa a una meditazione in ventotto sezioni, ognuna di esse conteneva una lettera ebraica; e, dal punto di vista numerologico (ghematriah), l’insieme Ventotto compitava la parola Koach, Forza.
Il relativo trionfo sui Tarocchi di Marsiglia occupa il numero XI, in altri mazzi l’VIII.
Che sia discutibile anche il conteggio dei “giochi” (?) di Abulafia da parte di Mauro Campello?
Nel mazzo Rider-Waite, infatti, per l'influenza della posizione astrologica dei segni zodiacali, del Leone e della Bilancia, simboli delle rispettive carte, s’inverte l’ordine de La Forza con La Giustizia.
“… Anni allegri e depressi di follia e lucidità/ sembran già degli Anni Ottanta/ per noi quasi ottanta anni fa.”. Che, per la numerologia cabalistica sono già ben due generazioni di 40!
Nel fondo della coscienza d’ognuno di noi esiste realmente un Venerabile Anziano, Antico dei Giorni e Primo Logos, che i cabalisti chiamano Kether.
Radice del nostro Essere, Misericordia delle misericordie, Bontà delle bontà, Occulto nell’occulto, “Grande Vento”: un alito dell’Assoluto, di per se stesso, profondamente ignoto, eppure Padre nostro.
Un benedetto Anziano dei Giorni (e, nel nostro caso, pure dei Giochi!), prima emanazione terribilmente divina dello Spazio Astratto Assoluto.
La sua barba rappresenta l’uragano, il soffio (Rūăḥ), la Parola, i quattro venti; questa pelosità ha tredici ciocche, come la sua capigliatura tredici boccoli, cernecchi o peót.
Il tredicesimo arcano dei Tarocchi è quindi questo Anziano dei giorni che possiamo incarnare solo vincendo la Morte (XIII).
“… Forse domani a quest´ora non sarò esistito mai…”.
Kether
Per realizzare in noi stessi l’Anziano dei Giorni dobbiamo realizzare completamente dentro di noi l’Arcano XIII e superarne l’estrema soglia. Abbiamo bisogno d’una morte suprema e d’una susseguente resurrezione per aver diritto a esibire interiormente la capigliatura e la barba dell’Anziano Venerabile.
L’Anziano dei Giorni dimora nel mondo di Kether; e la “corona” è il suo simbolo, come lo yod rappresenta le altre tre lettere (he, vau, he) del santo nome. Per entrare nel suo mondo è necessario richiedere aiuto all’Arcangelo Metatron, che già fu il profeta Enoch. È lui a capo di questa dimensione in grado di farci comprendere che a reggere tutto il creato è la Grande Legge, tremenda, del Grande vento: moltitudini umane come foglie in balia della corrente; ogni foglia una persona staccata dai rami degli alberi di famiglia; misera umanità dolente sospinta dalla brezza e dispersa dal turbine della Grande Legge.
L’Anziano dei Giorni è il nostro autentico “Io” nella sua radice essenziale; il nostro vero Essere di pace, che è luce, emanata dall’Assoluto, a sua volta, παλαιὸς ἡμερῶν (Anziano dei Giorni).
Per giungere a questa consapevolezza Abraham Abulafia ricorre all’alfabeto ebraico, suggerendo un metodo basato su stimoli che cambiano continuamente. Perché la sua intenzione non è quella, scontata, di rilassare la coscienza mediante la meditazione, bensì di purificarla grazie a un alto sforzo di concentrazione, che richiede di compiere contemporaneamente molte azioni mentali.
Non undici (XI) “giochi”, come dal programma Campello, ma solo il riflesso speculare IX (a pag. 304, del XVII capitolo, intestato a Luca Carboni e alla sua Silvia, poco leopardiana).
Il metodo più noto di Abulafia include una serie quadrupla di passaggi preparativi.
Da un’iniziale purificazione rituale, - che prevede, con indosso abiti candidi, il ricorso al digiuno e ai tefillin (battim o filatteri, fissati, shel yad al braccio sinistro, e shel rosh sulla testa) -, si va al passo successivo dedicato ad appuntare gruppi specifici di lettere ebraiche, unitamente alle loro permutazioni (“ludo-linguistiche”), di tipo anagrammatico (aptagramma/ antigramma), criptografico ed enigmistico (senza prendere in considerazione le ulteriori complicazioni numerologiche di ghematriah o notarikon).
Parole di bellezza
Il terzo momento è quello del canto di quanto trascritto, abbinato ad appropriati schemi fisiologici di manovre respiratorie e a un apposito posizionamento del capo.
Infine, l’immaginazione si concentra sulla mistica trasformazione delle lettere in forme umane e, contemporaneamente, sull’assenza del proprio corpo. Le lettere vengono disegnate mentalmente e proiettate sullo schermo della facoltà che le riproduce schematicamente, le ruota e le rigira in maniera acrobatica, capovolgendole.
In Imrei Shefer (parole di bellezza), Abulafia descrive quest’operazione creativa: «…Chi le guarda nelle loro forme scoprirà i loro segreti e parlerà loro, ed esse parleranno a lui. E sono come un'immagine in cui un uomo vede tutte le sue forme in piedi di fronte a lui, e allora sarà in grado di vedere tutte le cose generali e specifiche».
La fase finale è costituita da un’altra successione di quattro esperienze: illuminazione o “corpo-fotismo”, in cui la luce circonda la persona e in essa si diffonde, dando l'impressione che carne e organi siano diventati essi stessi chiarore; segue un indebolimento, in modalità "assorbente"; e, dopo un ulteriore potenziamento della capacità immaginativa, si ha la visione d’una forma umana e del medesimo sé, privo però d’un supporto fisico.
"… Le loro forme, sono chiamate lo Specchio Chiaro, perché tutte le forme che hanno luminosità e forte radiosità sono incluse in esse…”. Questa quarta esperienza è principalmente caratterizzata da paura e tremore.
Il ludus (o meglio lusus) abulaphianus si prospetta così di otto “giochi” (ioca), mentre il nono propinato nel romanzo di Campello appare un profano pretesto erotico, che sfida le lamentele di Asterione (1947, poi ne L’Aleph di Borges del ‘49), rintanato nella solitudine d’un labirinto dal quale invano si auspica di venire liberato.
Dopo brindisi, sguardi, ri-brindisi, sogni, fiore preferito, desiderio da realizzare nell’immediato (come da classica lampada di Aladino), sensi della vista e del tatto, si giunge all’invito a esprimere verbalmente i propri sentimenti, in una forzosa psicoterapia di gruppo per alessitimici/alessitimidi.
Lo specchio dell’Io
Abulafia sottolinea che il tremore costituisce una controprova fondamentale e necessaria per ottenere e riconoscere la “profezia” [ma forse sarebbe meglio parlare di “ispirazione divina” (Ruach haKodesh)]: "…Tutto il tuo corpo inizierà a tremare, e le tue membra inizieranno a tremare, e temerai d’una tremenda paura [...] e il corpo tremerà, come il cavaliere che corre con il cavallo, che è felice e gioioso, mentre il cavallo trema sotto di lui".
Questa meditazione, in fondo, non è che una (hitbodedut) delle prerogative generali di tutto l’ebraismo della Tōrāh (in quest’ultima chiamata devekut), comunione col divino. Ma la tecnica meditativa iniziale della Cabala profetica si ritrova già nel libro dei Tehilim (Salmi) di David haMelekh (David il Re), al versetto 8 del salmo 16: “Metto Hashem [e, specificatamente, il Suo santo nome Yod, he, vau, he] dinanzi a me, sempre.” (Shiviti Hashem lenegdì tamid). Le quattro lettere del Tetragramma, incoronate dalla Yod, accennano all’interezza, poiché in esso è tutto, dalla luce dell’En Sof ai più bassi livelli, tutto in completa Unità (Sefer Od Yosef Hai).
Alla paura fa seguito un'esperienza di piacere e diletto, quale percezione d’un’altra "entità" in corpo: "E sentirai un altro spirito risvegliarsi dentro di te e rafforzarti e passare su tutto il tuo corpo e darti piacere" (Otzar Eden Ganuz, Oxford Ms. 1580 fols. 163b-164a).
L’obiettivo abulafiano si raggiunge nella visione d’una forma umana, strettamente legata al proprio aspetto fisico, quasi la si trovasse di fronte. Un'esperienza autoscopica, o d’un "gemello" parlante: il doppio inizia a parlare al mistico, insegnandogli l'ignoto e rivelandogli il futuro.
Non appare chiaro “chi” sia effettivamente questa "forma", molto probabilmente un’immagine del mistico stesso (o un Doppelgänger?).
Nel Sefer haKheshek, lo scenario viene descritto in questi termini: «… Siediti come se un uomo fosse in piedi davanti a te e aspettasse che tu gli rivolga la parola; ed è pronto a risponderti riguardo a qualsiasi cosa tu possa chiedergli, e tu dici "parla" e lui risponde [...] e inizia quindi a pronunciare [il “nome”] e recita prima "la testa della testa" [cioè la prima combinazione di lettere, con la Yod], espirando con grande facilità; e poi ricomponiti come se quello che ti sta di fronte ti stesse rispondendo; e tu stesso rispondi, cambiando la tua voce…».
Il Pendolo di Eco
Con specifiche tecniche di respirazione, utilizzando le lettere del "Nome", dovrebbe apparire quella forma umana, speculare al proprio sé. L’ha spiegato esplicitamente, in Sefer haYei haOlam haBa: "E considera la sua risposta, rispondendo come se tu stesso avessi risposto a te stesso" (Oxford Ms. 1582, fol. 56b).
In Sefer haOt: «...E quando ho visto il suo volto, sono rimasto sbalordito, e il mio cuore tremava dentro di me, e ho lasciato il mio posto e ho desiderato ardentemente invocare il nome di Dio per aiutarmi, ma quella cosa è sfuggita al mio spirito. E quando l'uomo ebbe visto la mia grande paura e il mio forte timore, aprì la bocca e parlò, e aprì la mia bocca per parlare, e gli risposi secondo le sue parole, e nelle mie parole sono diventato un altro uomo.».
Ripercorrendo il sistema psicologico e metafisico di Mosè Maimonide, Abulafia si spese per un’esperienza spirituale di stampo interpretativo, od oracolare, simile a quello degli antichi profeti biblici.
Dopo l'espulsione degli ebrei dalla Spagna, la Cabala teurgica iberica, che si era sviluppata senza alcuna influenza significativa dalla Cabala estatica, fu integrata con quest'ultima e con le idee teosofiche medievali, divenendo parte della Tradizione, grazie al Pardes Rimmonim (“Giardino [di] melograni”) di Mosheh Cordovero, da lui scritto «per non perdermi e rimanere "confuso" nelle S/sue "profondità"».
In Medio Oriente, la Cabala estatica fu accettata senza riserve, anzi a tracce evidenti di dottrina abulafiana furono combinati elementi sufi, apparentemente derivanti dalla scuola di Ibn Arabi; fu così che, in seguito, le visioni sufi furono immesse in area europea; e, in Italia, le opere di Abulafia, tradotte in latino, contribuirono alla formazione d’una Cabala cristiana. L’interesse per la Cabala estatica è ripreso poi con le ricerche di studiosi come Leo Strauss, Gershom Scholem o Moshe Idel.
Il nome originale ebraico Abūlʿāfiya (a sua volta di derivazione araba, dal sostantivo abūlʿāfiya, da abū "padre di" e al-ʿāfiya "salute": quindi “padre della salute”), non è che un nome professionale, da speziale, medico o farmacista, come molti altri cognomi ebraici d’origine sefardita. In Italia settentrionale si sarebbe adattato in Bolaffio; Abolaffio potrebbe essere toscano, Bolaffi è presente anche in Calabria.
Chi voleva omaggiare, allora, ne “Il pendolo di Foucault” (1988), Umberto Eco con l’attribuire a un word processor il nome di Abulafia?
Il mistico spagnolo o la storica casa di collezionismo che offre prodotti e servizi in filatelia, numismatica, ecc.?
Alla stessa stregua, il titolo sembrerebbe fare riferimento specifico al fisico francese Léon, ma altri hanno pensato invece si riferisca, in un raffinato gioco enantiosemico, al filosofo e sociologo Michel, visto anche che il romanzo di Eco termina proprio il giorno dopo la morte di quest’ultima personalità (25 giugno 1984).
Iocus (divertimento) o ludus (azione)?
Per poter dipanare tutta quell’intricata, ed eccessiva, matassa di citazioni esoteriche, dall'alchimia alla teoria del complotto, l’autore della “Malaysian trilogy” (1958-1960), Anthony Burgess, ha simpaticamente suggerito che sarebbe stato utile approntare un indice analitico [A Conspiracy to Rule the World, New York Times Book Review, 15 ottobre 1989].
Per quella impropria mescidanza tra I Protocolli dei Savi Anziani di Sion e gli Illuminati di Baviera, od Opus Dei, Templarismo e Santo Graal, “Il pendolo di Foucault” appare quasi una parodia anticipata di The Da Vinci Code (2003) di Dan Brown.
Giudicato non destinato a essere facile (come non lo è stato nemmeno ''Il nome della rosa'', diventato un best seller, anche se ci si continua a chiedere quante persone lo abbiano effettivamente letto tutto), il velato omaggio di Eco allo storico della filosofia e della scienza francese costituisce una raccolta, davvero formidabile, di informazioni, trasmessa, in modalità tra lo scherzoso e il sarcastico, da un manipolatore della sua stessa menzogna, in effetti, una lunga (lunghissima), ed erudita (eruditissima), facezia.
Campello parla di “giochi”, certamente nel senso etimologico latino di iocus, che in origine valeva per “gioco di parole”, calembour, “scherzo”, arguzia salace, o persino volgare, ma che al plurale (ioci o ioca) indicava componimenti letterari a sfondo erotico, il corteggiamento disimpegnato, e spesso i diletti d’amore in genere (tra lo stuzzicarsi, l’attrazione e l’allettamento).
Il termine latino ludus veniva impiegato invece per indicare un incontro d’azione e, al plurale, ludi, i pubblici diversivi, gli agoni sportivi, gli spettacoli; a indicare quelli privati era più propriamente usato lusi.
Nell’Etica Nicomachea, Aristotele il “gioco” (paidia, παιδιά, e παίζω, giocare, da παῖς, fanciullo) lo mette in relazione con la felicità, attività la cui pratica merita d’essere scelta per se stessa, come tutte le azioni virtuose, non dettata com’è da un qualche interesse, o intrapresa per uno scopo al di fuori di sé; anzi, è proprio l’esercizio della virtù che la garantisce, altrimenti scadrebbe in un meno nobile divertimento ricreativo ai limiti d’una volgare distrazione.
“Gavese la nata”
Eraclito di Efeso preferiva trascorrere tutto il suo tempo libero con i bambini (παῖδες) in un genuino gioco di dadi, perché, spesso nel divertimento virtuoso si cela molta più saggezza che nella seriosa presunzione degli adulti; come, pure, accade che la saggezza, a sua volta, prediliga frequentemente tradursi, se non nell’enigma, nel linguaggio sfumato e aurorale dell’infanzia. Una forma sfuggente all’ascolto interessato e ai pregiudizi, ma aperto a soluzioni disponibili a un imprevisto rovesciamento di prospettiva.
Il detto piemontese (Gavese la nata, ovvero togliersi il tappo), che Eco mette in bocca al personaggio Jacopo Belbo, con tutto ciò che ne consegue circa boria e altezzosità, non è che una metafora a doppio senso. “Gavte la nata” è un mordace invito a “farsi furbo”, ossigenandosi come si fa con i vini buoni, oppure a “scendere dal piedistallo”, per sfiatare una presunta immodestia, francamente spiegata (nel capitolo 98), con non troppo velate allusioni “aerostatiche”, e scurrili emissioni sfinteriche.
Ma, coniugata in prima persona, all’indicativo (Mi i më gavo la nata), equivale a “mi tolgo uno sfizio”, in quanto un “tappo” teneva intrappolato un desiderio, o una piccola ossessione, e me ne sono finalmente liberato: e questo redime, affranca e porta gioia, come il gioco coi dadi dell’Efesio Eraclito, il quale magari sapeva anche tutto, ma pure che tanta scienza non gli era servita a niente.
Richiamare alla memoria e ripensare in che modo altri avrebbe potuto fare lo stesso, nel medesimo momento, come nell’auto-dedica dell’iniziale auto-brindisi (etimologicamente inteso, dal tedesco bringe, porto, porgo) finisce per essere un atto solipsistico, che potrebbe facilmente scadere nell’autocommiserazione. Eppure, all’elaborazione della memoria, partecipano regioni del cervello strettamente legate pure alla musica. Suoni di nomi, ricordi musicali, se i venticinque capitoli sono contrassegnati da altrettante colonne sonore, che vanno dal 1984 al ’90.
All’elenco manca però “Purple Rain” di Prince, che del 1984 viene considerata tra le più significative; un anno davvero enorme per la cultura popolare, l’84, se si pensa solo alla ri-attualizzazione prevista trentasei anni prima da Orwell (anagrammando il 1948), o anche al capolavoro di fantascienza Neuromancer di William Gibson, e ai film Terminator, Ghostbusters, C’era una volta in America, Gremlins, oppure al videogioco Tetris.
“L'oro sul fondo della bàtea”
Erano anni in cui sembrava che l’universo totale fosse dettato dalla scelta della politica, alla stregua di quel rigorismo ideologico che distinse il decennio tra l'illusione rivoluzionaria del '68 e i lunghi, atroci “anni di piombo”, culminati nel decennio successivo, con ricadute a strascico nelle droghe pesanti (non più solo psichedeliche), spalmate nei dintorni, spaziotemporalmente, a seguire.
Ma era pure come se un po’ tutto avesse congiurato a distrarre l'attenzione culturale da una creatività puramente letteraria.
Enzo Golino arrivò a sostenere che, in quegli anni, «forse gli unici che sono riusciti a utilizzare la Storia non come un nobile pretesto o un mobile da arredo, ma come una componente autentica, necessaria, strutturale del proprio narrare sono stati Emilio Tadini (La lunga notte, Rizzoli), Sebastiano Vassalli (L'oro del mondo, Einaudi) e soprattutto Umberto Eco (Il pendolo di Foucault, Bompiani)» [La Repubblica, 29 settembre 1988].
Di Tadini si rammenta la dialettica del richiamo speculare da identità a immedesimazione, fino all’esplosione nello spaesamento tra superficie e profondità; di Vassalli quel far gioire la vita di poche pagliuzze esitanti in fondo alla futura memoria, paragonata a una padella.
E sovviene, allora, il titolo più famoso di Elsa Morante: “La Storia” (1974), scritto con una doppia esse (in maiuscolo, per la grande, e in minuscolo, per la cronaca quotidiana: S/s), poiché la narrazione intreccia il personale con il politico; ma pure l’altro personaggio del Pendolo di Eco, il socio di Belbo, Diotallevi, la cui pretenziosa ossessione è la cabala, giustificata dall’insistenza sul fatto che, sebbene i suoi antenati non fossero ebrei, lui sente di esserlo, proprio perché possiede una "squisita comprensione talmudica"!
La morale, a questo punto, d’una qualsiasi storia (non importa con quale grafia iniziale; o mythos deloi oti, Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι) induce a pensare che l’essere umano (in specie se maschio), anche quello che nutre aspirazioni di qualsiasi tipo (siano esse le più elevate), nasconda sempre un insieme di tendenze ludiche, un po’ fanciullesche, un po’ bestiali, che una connaturata e losca pigrizia trattiene nell’indugiare a inframezzarle tra più pressanti, istintive, e ferine, pulsioni erotiche.