Sabato, 07 Dicembre 2024

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

C Cultura|Società

L’ «IO» E IL SUO DOPPIO, PSICOANALISI DI PIRANDELLO, LA FRSA TRAGICA DELLA PERSONA

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«Il mondo disincantato e dichiaratamente razionale dell’epoca moderna genera anch’esso delle incongruenze […] fino a quando l’uomo moderno potrà continuare a ridere di se stesso, la sua cacciata dai giardini incantati dei bei tempi andati non potrà dirsi compiuta. La nuova sensibilità umoristica potrà rivelarsi il tallone d’Achille della modernità come pure la sua possibile ancora di salvezza» - Peter L. Berger: Redeeming Laughter: The Comic Dimension of Human Experience, Walter de Gruyter, New York 1997.

I social network

Probabilmente, alla società d’oggi, così estremamente varia e variabile, mancano dei riferimenti fermi, proprio perché ci si muove di più, e sono molte di più le svariate possibilità di scelta, sia pur apparente, in ogni campo della propria esistenza, e inoltre con molta più gente si ha possibilità d’entrare in contatto, magari solo superficialmente, mediante i social network. E, appunto grazie alle numerose nuove piattaforme multimediali, tra i giovani, è invalso l’entusiastico fenomeno degli autoscatti (selfies), grazie ai quali si coglie la costante circostanza di condividere con altri un quasi “obbligo” (o verità - Truth or Dare) e il “gusto”, il ruolo e la posizione, del proprio Io all’interno dell’umano consesso.

I giovani sono delle “spugne” che adeguano nell’immediatezza il loro atteggiamento in base ai precisi condizionamenti del mondo esterno, ai quali l’Io non manca di  adattarsi. E, da questo punto di vista, la società influenza pesantemente la creazione dell’identità, poiché  la coscienza morale individuale si palesa come il risultato d’una serie di regole imposte dal di fuori, e del tutto indipendenti da norme assolute e leggi naturali.

Connection addiction

Questa (diciamo) nuova “immagine” (il selfie) nasce da una vecchia esigenza di apparire al mondo esterno, come riprova sociale, e in cerca d’un rapporto diretto con gli altri; esigenza amplificata adesso nella continuità d’ogni attimo della propria vita, quale vera e propria “Connection addiction”.

Ciononostante, l’immagine del proprio “io”, trasmessa e condivisa, séguita a non corrispondere a quella reale della “persona”, nel protrarre  un ideale da volersi comunicare in quanto “personaggio”. Insomma, non ci mostriamo per come siamo, o meglio, ci mostriamo nella maniera in cui “vorremmo apparire”.

Siamo, allora, di fronte a degli “artifici” (artificios) o a delle finzioni (Ficciones, tanto per citare Borges)?

La tragedia d’un personaggio

«Avere il privilegio inestimabile di essere nato personaggio, oggi come oggi, voglio dire che la vita materiale è così irta di vili  difficoltà che ostacolano, deformano, immiseriscono ogni esistenza; avere il privilegio di esser nato personaggio vivo, ordinato dunque, anche nella mia piccolezza, all’immortalità, e sissignore, esser caduto in quelle mani, esser condannato a perire iniquamente, a soffocare in quel mondo d’artifizio, dove non posso né respirare né dare un passo, perché è tutto finto, falso, combinato, arzigogolato! Parole e carta! Carta e parole! Un uomo, se si trova avviluppato in condizioni di vita a cui non possa o non sappia adattarsi, può scapparsene, fuggire; ma un povero personaggio, no: è lì fissato, inchiodato a un martirio senza fine» (da “Novelle per un anno”).

Il racconto “La tragedia d’un personaggio”, - uscito sul “Corriere della sera” il 19 ottobre nel 1911, ma successivamente apparso in “La trappola” (Fratelli Treves, 1915) e poi nella raccolta “L’uomo solo” (1922) – anticipa d’un decennio la tematica del dramma dei “Sei personaggi in cerca d'autore”, che ebbe il suo eclatante debutto al teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921, e viene considerato il primo della trilogia del “teatro nel teatro” (composta insieme con Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto).

Ma per Daniela Cimarosa (L’«Io» e il suo doppio - Analisi e interpretazione dell’opera pirandelliana in chiave psico-esistenziale, Città del Sole, Reggio C. 2024), quest’espediente metanarrativo era stato preceduto ancora da un’altra novella d’un lustro prima, “Personaggi” - (Il Ventesimo, anno V, numero 30, 10 giugno 1906): «L’arte, signori miei, ha l’ufficio di rendere immobili le anime, di fissar la vita in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto, il paesaggio in un aspetto temporaneo immutabile.» - , e poi ripreso in “Colloquii coi personaggi” (I. Il Giornale di Sicilia, 17-18 agosto 1915. II. Il Giornale di Sicilia, 11-12 settembre 1915): «Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.».

Uno “scriptor in fabula”

L’incipit ha il sapore dell’autopresentazione d’un intellettuale a metà strada tra uno “scriptor in fabula” e un improvvisato professionista della salute mentale che concede ascolto a quei protagonisti pronti ad affidarsi alla sua penna.

 «È una vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. […] Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente più scontenta del mondo, o afflitta da strani mali, o ingarbugliata in speciosissimi casi, con la quale è veramente una pena trattare. Io ascolto tutti con sopportazione; li interrogo con buona grazia; prendo nota de’ nomi e delle condizioni di ciascuno; tengo conto de’ loro sentimenti e delle loro aspirazioni [...]».

“L’unico vivo tra molte ombre vane”

Non mancano osservazioni argute su quelli che vogliono saltare la fila o che pretendono maggior benevola considerazione oppure che, già senza esito, s’erano inutilmente rivolti ad altri.

 «Mi è avvenuto non di rado di ritrovare nelle novelle di parecchi miei colleghi certi personaggi che prima s’erano presentati a me; come pure m’è avvenuto di ravvisarne certi altri, i quali, non contenti del modo con cui io li avevo trattati, han voluto provare di fare altrove miglior figura.».

A destare la sua curiosità è “l’unico vivo tra molte ombre vane”, che, senza bisogno di morire aveva trovato la pace in una sorta d’imperturbabile quiete, per cui, dal passato, non traeva insegnamenti e nemmeno previsioni per l’avvenire dal presente. Anzi, proiettandosi nel futuro, guardava al contemporaneo come se fosse già trascorso.

“La filosofia del lontano”

Personaggio ancor più intrigante perché anch’egli, come il suo autore in carne e ossa, impegnato a scrivere un libro dal quale era convinto di poter ricavare ampia notorietà: “La filosofia del lontano”. Essa trae fondamento dal guardare alla vita attraverso un cannocchiale rivoltato che le cose vicine le mostra piccolissime e insignificanti.

E chi è questo “dottor Fileno” se non lo stesso agrigentino recatosi a Bonn per studiare filologia romanza con grandi maestri, come Franz Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster, e dedicare la sua tesi di laurea al dialetto di Girgenti (Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti, Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti), tesi che Giovanni Macchia re-intitola allusivamente “Filologia del lontano”.

«E anche la sua Sicilia, non soltanto nel dialetto, fu studiata, osservata da lontano, da altri climi, con crudeltà e nostalgia. Le cose più vicine, vissute, torturanti , furono viste con il binocolo rovesciato: da quella distanza che ne permettesse la meditazione assorta o l’ironia o addirittura il grottesco» (“Pirandello o la stanza della tortura”, Mondadori, Milano 1982).

Se nei Sei personaggi in cerca d’autore, benché indispettito per la giornata di prove perduta, il Capocomico s’è lasciato involontariamente persuadere a dar voce, con l’opportunità d’esporre le loro richieste, a dei soggetti petulanti, ne La tragedia d’un personaggio prevale lo scherno dell’irrimediabile fallimento della vanità d’una “vita miseramente mancata”.  

Novelle per un anno

La raccolta dei racconti, scritti tra il 1884 e il 1936, venne valutata tra i capolavori della novellistica italiana di tutti i tempi. Il titolo unificante di “Novelle per un anno” avrebbe dovuto inserirla nel solco programmatico di quel tempo preciso d’un rituale affabulatorio, quasi come nel Decameron oppure ne Le mille e una notte, “... per tutt'un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni nessuna abbia tratto la sua qualità” [dall’Avvertenza al Primo libro della raccolta, Scialle nero (1922)].

Più che un “corpus” unico, però, avrebbe costituito una serie di due dozzine di volumi, contenenti una quindicina di novelle ciascuno, per un totale complessivo di 365 novelle (un anno appunto, -  epagomeni inclusi!). Quest’ambizioso progetto non poté giungere completamente a termine, a causa della morte di chi l’aveva pensato. Cosicché, tra le novelle pubblicate in vita e le postume, non si giunse al totale previsto.

Il maggior valore aggiunto

Come già in Giovanni Verga (Storia di una capinera, La caccia alla volpe e La caccia al lupo, per esempio), il maggior valore aggiunto di questi racconti sembra quello d’aver costituito il miglior momento di fermentazione artistica per il successivo concepimento di alcune delle sue pièces teatrali più celebri, dove davvero s’è affermata la sua vera personalità, e che non sono altro se non la trascrizione in forma dialogata delle medesime vicende dapprima descritte narrativamente.

Così è (se vi pare) è tratto da La signora Frola e il signor Ponza, suo genero; L'uomo dal fiore in bocca da La morte addosso; Il piacere dell'onestà da Tirocinio; Il gioco delle parti da Quando si è capito il giuoco; Non si sa come addirittura dal terzetto Nel gorgo, Cinci e La realtà del sogno; 'A birritta cu' i ciancianeddi da La verità e Certi obblighi; Ma non è una cosa seria dall’accoppiata La Signora Speranza e dal racconto omonimo; come omonimi o quasi, sono La favola del figlio cambiato; Pensaci, Giacomino!; Lumie di Sicilia; La giara; o La patente.

Mistero profano (o mistero buffo?)

Anche All'uscita (1916) era stata pensata per l’esposizione scritta, ma, dato il suo contenuto altamente drammatico, ridefinita Mistero profano, venne messa in scena,   in un atto unico, il 29 settembre del 1922, al Teatro Argentina di Roma, per l'allestimento della Compagnia di Lamberto Picasso.

Prima di scomparire del tutto, dopo aver abbandonato i loro cadaveri in disfacimento nelle tombe, due spiriti s'incontrano “All'uscita” d’un cimitero per riflettere tra loro su quello che furono, ma soprattutto sul legame di sentimenti, e di risposte, che ancora attendono, e che, secondo alcune teorie teosofiche, li tiene tuttora ancorati ai viventi.

Pirandello vi inserisce un tratto di simbologia misterica, con la duale interconnessione tra vita e morte, sotto forma di quella melagrana, segno di resurrezione e fertilità, eppure, nello stesso tempo, associata ai riti funebri, e, nel resoconto, tanto agognata dal bimbo che corre “leggero sui rosei piedini!”.

S’accorgono che a trattenerli è un “ultimo desiderio” che solo l’atarassia de Il Filosofo non nutre, destinandolo così a un’attesa, “sospesa” e senza fine.

Una liaison trascendentale

L’attrazione per l’aldilà di Pirandello oscilla tra la trascendentale liaison che lega a questo mondo gli spiriti inquieti e un positivismo del “nulla eterno” - un po’ alla Foscolo, quindi, se non proprio quale lucreziana “omnis aetas, post mortem quae restat cumque, manenda”, oppure heideggeriano nichilismo esistenziale, per cui quell’esserci nella deiezione viene vissuto quale esserci-per-la-morte?

Effetti di un sogno interrotto

Cosicché nell’ultima novella della raccolta, Effetti di un sogno interrotto, uscita nel 1936 sul Corriere della Sera (e proprio il giorno prima della morte dell’autore, che lascia incompiuto I giganti della montagna, dopo aver appena ultimato Il chiodo, della raccolta Una giornata), al protagonista appare una defunta sotto le spoglie d’una Maddalena ignuda dipinta in un quadro, e molto somigliante alla moglie d’un tale, il quale, geloso, vorrebbe, per questo semplice motivo, acquistarlo a qualsiasi prezzo. Quest’onirismo s’anima in un amplesso tra i coniugi divisi, nell’immaginata “realtà”, dalla vedovanza. E l’inspiegabilità dell’esperienza notturna contrasta con la minimizzazione dell’accaduto da parte dell’antiquario interpellato in proposito.

Chi fu?

Venendo a sapere che la sua ex fidanzata si prostituiva con il consenso della madre, il protagonista di Chi fu? (Roma di Roma, quotidiano politico-letterario, anno I, n. 59, 27-28 giugno 1896) uccide quest’ultima e ne rimuove la colpa, attribuendola all’ex suocero ormai deceduto.

L’epifania della primavera   

Dal gusto metafisico si passa all’aspetto “epifanico” (quello introdotto da James Joyce quale inaspettata rivelazione d’un’ignota quanto sorprendente condizione interiore), in Filo d’aria (Corriere della Sera, 26 aprile 1914, poi ne Il carnevale dei morti, Battistelli, Firenze 1919), dove un prossimo morente (che molto richiama il “dottor Fileno”), poiché ormai distante dalla vita, avverte ciò che quanti vi sono tuttora abbarbicati non riescono a percepire (“La Filosofia del lontano”!).

Allo spalancarsi della porta, mentre la luna rischiara il buio della stanza, si svela il ritorno (“l’epifania”) della primavera. La nuova luce dell’imminente trapasso illumina i presenti rendendoli diversi da come apparivano prima nell’oscurità dell’esistenza.

Notte

Il tema luce tenebra, avviluppato a quello vita morte («La fresca, placida tenebra, trapunta da tante stelle, sul mare, avvolgeva il loro cordoglio, che si effondeva nella notte e palpitava con quelle stelle e s’abbatteva lento, lieve, monotono con quelle ondate su la spiaggia silenziosa.»), si ripropone in Notte (Corriere della Sera, 1° agosto 1912, poi ne La trappola, Treves 1915.), durante la quale l’infelicità umana lievita nel silenzio infinito, rendendo la solitudine condizione di dolore e miseria cosmici.

«Morte – pazzia – solitudine: ecco la trinità terribile che sostiene l’arco dell’esistenza pirandelliana. Morte e solitudine sono i due piloni che reggono il peso e lo slancio della pazzia”. (Ottavio Profeta: “De Roberto e Pirandello”, Studio editoriale moderno, Catania 1939).

La finzione del ruolo

Costretti a vivere nella “forma”, s’è persa l’integrità della sostanza, ridotta a “maschera” che recita una parte imposta dagli ideali morali. Quest’idea di uomo non come persona, ma come personaggio, è intrinseca alla poetica pirandelliana, dove un po’ tutti si nascondono dietro la finzione del ruolo loro assegnato, non fosse altro, per meglio affrontare le insidie della società.

«Tutti gli uomini sono maschere o personaggi perché tutti recitano una parte.» (Pirandello).

L’autoinganno

Per contro, l’uomo ha pure bisogno, per sopravvivere, dell’autoinganno di credere che la vita abbia un senso, per cui s’organizza secondo quelle convenzioni che rafforzano tale illusione.

Ogni altro sforzo per mettere ordine alla propria esistenza appare vano e inutile,  perché  la persona cambia sempre in funzione (e finzione) del personaggio che deve rappresentare; e la sua identità è moltiplicabile all’infinito, momentanea, volatile, impalpabile, in quanto sempre pronta a mutare.

In Pirandello, fa capolino l’intuizione che debba essere abbandonata la base stessa della psicologia tradizionale, intesa quale concezione dell’identità personale risalente  all’idea d’un’anima, a supporto di tutt’intera una vita, le cui contraddizioni vanno attribuite a fattori esteriori, più o meno in grado d’intaccare la sostanziale stabilità di quel semplice sostegno dell’essenza medesima della persona.

La dissociabilità junghiana

Come Pirandello, anche C. G.  Jung mette in discussione l’illusione della compattezza e della solidità della personalità. Davanti a certi stimoli, tende a dividersi, persino a frammentarsi, quasi assecondando una fondamentale, e peculiare, dissociabilità, nonostante ci piaccia pensare che le nostre personalità siano invece dotate d’un altissimo livello di coesione interna.

«Non c’è uomo, osservò il Pascal [e quale Blaise o Mattia?], che differisce più da un altro che da sé stesso nella successione del tempo» (Pirandello).

Eppure, questa “dissociabilità” non andrebbe vista sempre come un vero e proprio difetto; in fondo, è ciò che forse, paradossalmente, rende la personalità un vero network, una rete, un sistema in cui le diverse parti, pur scontrandosi, interagiscono tra di loro.

Questa tensione tra gli opposti dentro l’essere umano diventerà per Jung la base della sua visione dell’energetica psichica. Poiché la tensione tra gli opposti è quel luogo (interno e pure esterno) in cui un individuo si definisce (o non si definisce) quale persona… “etica”, in un conflitto interiore lealmente vissuto fino in fondo.

L’intuizione psicanalitica

«Pirandello fu un creatore infelice, tormentato, ed un felicissimo amministratore delle sue creazioni , di cui  l’una poggiava scioltamente sui risultati dell’altra. Fu uno dei più brillanti negatori dell’unità dell’io e si costruì pezzo per pezzo, con tenacia e accanimento, la propria “personalità” di scrittore. Un suo spiritello pervicace, quasi tenebroso, lo spinse fino ai limiti dell’assurdo, al gusto dello scandalo» (Giovanni Macchia: “Pirandello o la stanza della tortura”, Mondadori, Milano 1982).

Anticipando quasi la lezione psicanalitica, che non poté intuire quando studiava in Germania (1889-91), dell'inconscio dominato da pulsioni che la religione non è in grado di controllare, l’interpretazione pirandelliana della sessualità resta una soggettiva, e costante, constatazione apodittica.

La “lucifera fanciulla”

«Non oggi, va’! dimani,/ diman ti giungerò,/ Larva dei sogni miei,/ lucifera fanciulla,/ te che il mio tutto sei,/ e pur, forse, sei nulla./ «Toglimi!» spesso dice/ il labbro tuo, ridendo./ «io t’amo, e mi ti do.»/ No, larva; se ti prendo,/ non sarò piú felice:/ crudele è nostra sorte,/ ed io per prova il so./ Sconcian le nostre mani/ ogni piú bella cosa…/ Va’ innanzi, e senza posa/ io dietro a Te verrò./ In questa pena lunga/ di giungerti è la vita;/ sarà tosto finita,/ come, o ben mio, t’avrò./ Tu, che sí bella sei,/ Larva dei sogni miei,/ tu sei, forse, la morte....».

Pasqua di Gea

Così scriveva della sua amata Jenny Schulz-Lander, “filia hospitalis” (Gastwirtstochter, ovvero figlia della casa, in cui da studente viveva al n. 37 di Breite Strasse), in “Pasqua di Gea” (Galli, Milano 1891), con la dedica “Meine liebe, süsse Freundin” (mia cara, dolce amica), ma non senza quella polemica intenzione di festeggiare più della Pasqua cristiana, l’antica festa primaverile germanica Ostern (in nuovo alto tedesco, corrispondente all'inglese Easter), - un nome la cui radice è legata all'antico greco Ēōs (Ἠώς), l'alba divinizzata, e al latino aurora, - nel titolo pirandelliano associato alla “primavera renana” vissuta insieme, così come a quella Terra, l’antica madre Gea, che vede risorgere la Natura, assieme all’Amore, quasi ad attestare l’irrefrenabile impeto di vita ridestato, in quel preciso momento dell’anno, nella città della musica, ove nacque Beethoven.

Fuori di chiave

«… Sotto un cappello di castoro, enorme:/ magro egro smunto: non mangia, non dorme;/ studia sul serio (o cosí crede almeno)/ del linguaggio le origini e le forme./ Studia, ma… è notte: brontola il camino;/ fuori, la neve lenta eterna fiocca:/ pian l’uscio s’apre e, un dito su la bocca,/ entra scalza Jenny…...» sono i versi che le riserva in ”Convegno”, nella raccolta “Fuori di chiave” (Formiggini, Genova 1912), un titolo che allude al linguaggio musicale; - lo si capisce già dal primo componimento, Preludio orchestrale, dove un violino sta operando “una sua brava sonatina d’amor, con sentimento“, ma a questo strumento si contrappone un contrabbasso con un suo “strano, rauco ammonimento“. Il maestro d’orchestra si scusa della “dissonanza” dicendo di non sapere che in quella “cava pancia” s’è nascosta una certa dama, tutta ossa, e dalle orbite vuote…

Come rileva Giovanni Macchia: «Pirandello costruisce pezzi disarmonici. Utilizza la dissonanza come scatto di ripresa per una soluzione che viene di continuo rimandata. Il suo ideale consisterebbe nel raggiungere una scrittura di cose, perché il gusto della forma, se egli lo perseguisse, stonerebbe con la sua arida e nuda concezione del mondo, suonerebbe ambiguo e falso compiacimento, orribile “letteratura”».

Una certa ambiguità di comportamento

Prima di lasciarla, già a luglio del ‘91, le confessava: «La tua ultima lettera mi ha fatto male. Io non ho dimenticato né te né Bonn, tu sei addirittura l’unico dolce ricordo della mia vita. Ah, ti prego, Jenny! non pensare male di me… Se non ti scrivo tanto spesso, tu devi pensare che ho ragione a fare così. Io non posso scrivere più una lettera – tanta è la sofferenza chiusa nel mio cuore. E poi – perché devo render triste anche te? È già troppo che sono tanto triste io».

Dopo un’altra lunga pausa di silenzio, di più di due mesi, le ultime tre lettere di Luigi insistono sull’improbabilità d’un suo ritorno a Bonn (17 ottobre ’91), riprendendo i temi del distacco e pure d’un giustificativo rimorso («io sono veramente un poco di buono», novembre ’91) e si concludono con un non poi tanto velato addio: «ah no, no, mia dolce Gigantessa, a che scopo illuderci? io non posso più ritornare». (ultima lettera, novembre ’91).

Amori senza amore

Per meglio comprendere quest’atteggiamento è interessante soffermarsi su qualche novella, come “L’onda”, della serie “Amori senza amore” (1894), che sembra aver molto da chiarire di quell’amara idea della vita, ma soprattutto dell’amore, che ha caratterizzato buona parte della sua poetica.

Ci si innamora, ma uomini e donne sono condannati a non vedere realizzati i propri sogni, in quanto sia i motivi d’interesse in primis, sia le convenzioni sociali, s’insinuano negli animi per roderne le emozioni e modificarle, sino a riuscire a soffocare i sentimenti più sinceri.

Un doppio Luigi

Il protagonista de “L’onda” è l’immagine speculare di ciò ch’era stata Jenny per Pirandello, la figlia della signora che l’ospitava: «…s’innamorava costantemente delle sue inquiline. Possedeva una casa a due piani: affittava il primo, a cui era annesso un terrazzo, che dava su un grazioso giardinetto riserbato per un’angusta scala interna al secondo piano; abitava in questo con la madre paralitica, relegata da parecchi anni in poltrona. Di quando in quando gli amici lo perdevan di vista, e allora si poteva ritenere con certezza, che l’ingegnere Giulio Accurzi s’era già messo a far l’aggraziato con la filia hospitalis del piano inferiore.». 

Ma usa impropriamente l’espressione relativa alla Gastwirtstochter, laddove avrebbe semplicemente dovuto dire “ospite” (gehostet).

Sposa una sua inquilina (di nome Agata, ma si tratta di Jenny?), abbandonata dal fidanzato (Mario Corvaja, un altro sdoppiamento di Pirandello?), il quale aveva fatto pubblicare per lei una poesia (per farsi perdonare?).

Gli interessi di famiglia

Mentre amoreggiava a Bonn, la famiglia gli stava organizzando un matrimonio di convenienza che assicurasse, con la ricca dote della sposa, una rendita sufficiente al decoroso mantenimento della nuova famiglia e contribuisse a rimpinguare la cassa sociale in un momento di crisi. Confondendosi con il verghiano senso della “roba”, e annodandosi coi sentimenti e con gli affetti, si stavano ordendo i fili d’una trama che si sarebbe andata ingarbugliando sempre più, generando ed esacerbando malintesi, odi ed egoismi, in quella mescidanza di solitudine e follia, disperazione e sofferenze, che fu la vita coniugale del Nostro, e che però in gran parte ha contribuito a renderlo lo scrittore di successo che conosciamo adesso.

La trappola

In forma di monologo interiore, il racconto "La trappola"[dapprima sul  «Corriere della Sera», il 22 maggio 1912, poi da Treves 1915, e infine in L'uomo solo, Bemporad, Firenze 1922] arriva addirittura a condensare una delle tesi principali del capolavoro di Schopenhauer, nonché per Freud privilegiato punto di riferimento filosofico (Il mondo come volontà e rappresentazione, Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819), dove si attesta come l'istinto sessuale non sia che un artifizio di cui si serve una natura matrigna per costringere gli uomini a riprodursi, nell’illusione

che ciò li renda felici.

La filosofia del misogino

Le donne seducono, infatti, gli uomini, ci si accoppiano, e mettono alla luce tanti altri "piccoli morti" che cadono a loro volta “in trappola”, iniziando a morire appena nati.

Del tutto indipendente dalla volontà umana, allora ogni attrazione fisica; fittizia la convinzione della libera scelta del partner in nome dell’amore, persistendo forze ancestrali in grado di dominare i sentimenti degli esseri umani. E degli uomini, in particolare, che spesso appaiono delle mezze figure, se messi a confronto con le donne, ingenerando una sorta di compensatoria giustificazione a una misoginia, sublimata dall’autore nell’insistente esigenza del successo letterario.

L'unica resistenza a tali ataviche pressioni consiste nella filosofica assenza di desideri, e non aspirare a niente sembra essere lo scopo esistenziale del pensiero  pirandelliano.

L'uscita del vedovo

Le donne fanno "perdere tempo" (specialmente a uno come lui, artista della penna e del palcoscenico), lo ribadisce ne "L'uscita del vedovo" [Il Marzocco, 28 gennaio 1906, poi in La vita nuda, Treves 1910]; creano "impicci", con le loro esigenze particolari, oltre che coi figli che partoriscono; inoltre, procurano "una certa difficoltà" relazionale, nell’evidente persistenza d’una questione sessuale “stricto sensu”: «Oh con quale ardore la desiderò in quel momento! Sì, sì, nonostante tutto il martirio che ella gli aveva inflitto per nove anni. Sì, egli la voleva, la voleva! aveva bisogno di lei! Senza di lei non poteva più vivere. Oh, anche a costo di soffrire da lei le pene più ingiuste e più crudeli… Non poteva rassegnarsi a vedere così spezzata per sempre la sua esistenza! Aveva appena quarant’anni!».

Le frustrazioni personali

L'arretratezza culturale dell'Italia meridionale riesce ancora a far esercitare alla religione un forte controllo sulla sessualità, ma nelle novelle pirandelliane s’aggiungono nevroticamente le frustrazioni personali dello scrittore, cristallizzate in uno sfortunato matrimonio con una donna particolarmente gelosa e ossessiva, poiché affetta da deliri di persecuzione, tanto da dover finire rinchiusa in manicomio.

Prima ancora del sorgente fascismo, è allora il dramma familiare del nostro a rappresentare quel limes oltre il quale doversi allontanare il più possibile dalle mura domestiche. Che sia stato, appunto, quest'enorme sforzo intellettuale per superare una barriera assolutamente insopportabile ad assecondarne il successo internazionale?

Il meglio di sé un autore sembra forse darlo quando è messo sotto pressione e non quando si sente libero di scrivere ciò che vuole; in genere, succede spesso in campo letterario, o artistico, e ne sarebbe una riprova la letteratura sovietica prima della perestrojka gorbacioviana. Senza forti lacerazioni interiori da sublimare, non si forgiano più grandi scrittori?

Racconti erotici?

Luigi Pirandello meriterebbe d'essere letto già solo per la grande padronanza linguistica dimostrata in questi pochi racconti cosiddetti “erotici” (L'uscita del vedovo; La trappola; Effetti d'un sogno interrotto; Un cavallo nella luna; La rosa; La realtà del sogno; Nel gorgo; Richiamo all'obbligo), dove, proprio in ragione del loro argomento "scabroso" (relativamente ai tempi in cui vennero elaborati), raggiunge vette letterariamente sublimi. Perché, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, soltanto un grande scrittore poteva permettersi il lusso d’affrontare, e trattare con grande maestria. un tema ch’era un netto e deciso tabù per la stragrande maggioranza della popolazione alfabetizzata italiana, e della meridionale in particolare.

Ma sarebbe un gravissimo errore pensare che sia la borghesia meridionale di cultura cattolica, quella da cui lui pur proveniva, la “sua” specifica classe di riferimento. Sempre perché in lui prevale quell’intuìto freudiano tentativo d’oltrepassare l’assiologia borghese non più disposta ad assecondare certi valori religiosi, siano essi cattolici o protestanti, soprattutto in rapporto a una più intima sfera sessuale. E non per nulla, nei testi pirandelliani (anche in quelli non espressamente erotici), permane un’evidente, costante, dicotomia tra realtà concreta e apparenza formale.

Ad azzardare semmai un proprio sviluppo letterario "libertino" poteva ergersi solamente qualche privilegiato, come D'Annunzio, o il Verga de "La lupa", entrambi comunque, appartenenti a una ben riconosciuta “intellighenzia” borghese.

Autore anti-perbenista?

Probabilmente, come Svevo, per molti versi, Pirandello tende a dimostrarsi  trasposizione letteraria di quella critica freudiana al perbenismo, anche e non solo in relazione all'atteggiamento da mantenere per gestire questioni sessuali. E, da questo punto vista, potrebbe paradossalmente venire riconosciuto quale involontario anticipatore della liberazione sessuale sessantottina?

Anche se si potrebbe opporre che, essendoci in ballo degli argomenti osé, la trattazione non esplicita, o indiretta, più che una scelta consapevole, finalizzata a una maggiore enfasi elegante, poteva essere  invece il frutto del condizionamento socioculturale.

La padronanza linguistica

Dire le cose come stanno, facendo ricorso a un linguaggio diretto, è un esercizio letterario molto più banale di quello che gioca con delle eleganti allusioni al "non detto", o che pone a protagonista l’indicibile. Non sarebbe proprio questa la differenza tra l’esplicita pornografia e un sottile erotismo?

La grandezza di Pirandello sta proprio nella maniera affabile e delicata con cui affrontava le nevrosi sessuali, che oggi magari verrebbe considerata prolissa superfetazione, od orpello barocco.

La straordinaria padronanza linguistica gli permette di giustapporre, in taluni frequenti momenti, o d'intersecare, sempre condendola con sottile, e amara, ironia, strategie letterarie tra loro differenti, e così passare dal racconto alla commedia, o al dramma teatrale, pur mantenendo sottesa della velata autobiografia. E difatti,  la descrizione della signora Piovanelli (ne L’uscita del vedovo), sembra corrispondere a quella della moglie Maria Antonietta Portulano.

Emblematico, e geniale, poi, l'esordio che, dopo tre righe di prosa piana, tipica d’una classica novella, improvvisamente introduce, con un punto esclamativo, quel discorso indiretto tra i due protagonisti, che già predispone al dialogo teatrale.

Un cavallo nella luna

Altre volte prevale la vena poetica, come nell’incipit di "Un cavallo nella luna" [prima pubblicazione: “Il Marzocco”, 23 giugno 1907, poi presso Treves, Milano 1918, infine nella raccolta "Donna Mimma" del 1925). Il ritmo non segna il tempo, caratterizzato dal mese estivo-autunnale, ma uno spazio evocato accuratamente, quasi in versi che facilmente potremmo attribuire a un Quasimodo (basta scandirli con barrette oblique): “Di settembre/ su quell'altopiano di aride argille azzurre/ strapiombante franoso sul mare africano/ la campagna già riarsa/ dalle rabbie dei lunghi soli estivi/ era triste:/ ancora tutta irta di stoppie annerite/ con radi mandorli/ e qualche ceppo centenario/ di ulivo saraceno qua e là”.

Lettore/ autore/ attore/ spettatore

La trama di "Un cavallo nella luna" non sembra concludersi se non in un invito, rivolto al lettore, a proseguirla in quella raffinata arte che innesta il racconto nella recita teatrale, esigendo perciò la complicità di quello ormai divenuto anche autore, e attore/ spettatore.

Sempre molto netta si ripresenta pertanto l’eventualità d’una trasposizione della letteratura verso altri generi, persino cinematografici.

Una giornata

La struttura letteraria di “Una giornata” [«Corriere della Sera», 24 settembre 1935,  Mondadori, Milano 1937, poi nella quindicesima raccolta pubblicata postuma nel 1937] rimanda chiaramente alla tecnica di ripresa del piano-sequenza, in cui l’inquadratura, che ha la medesima durata dell’azione (teoricamente, quasi ad anticipare, di più di mezzo secolo, l’«Arca russa», Русский ковчег, di Aleksandr Sokurov), conferisce una percezione di continuità molto realistica, eppure in un sempre maggiore avvicinamento alle astratte simbologie surrealiste.

Un uomo senza nome, in cui non è difficile individuare l’autore, oniricamente anticipa la propria morte, vedendosi violentemente strappato dalla vita raffigurata in un treno in corsa nella notte. Grazie a quest’espulsione vive un'esperienza straordinaria, destinata a modificare in lui la percezione stessa delle cose.

Nella contrazione del tempo in una sola giornata, gli scorre velocemente dinanzi, in un susseguirsi di immagini confuse, tutta la sua parabola terrena. In una visione delirante, si ritrova in un luogo buio e privo di spessore, fuori dal tempo e dallo spazio. Il treno continua inesorabile la sua corsa notturna, mentre nessuno sembra curarsi di lui, così come, infatti, il lanternino cieco del capostazione s’allontana indifferente fino a scomparire del tutto.

Pur senza sapere da dove fosse partito e a quale meta fosse diretto, sempre più smarrito e confuso, il terrorizzato protagonista, all'alba, s’addentra in un'ignota città, dove, invece, tutti vanno tranquilli e sicuri per la loro strada. Anzi, alcuni passanti, che non ha mai visto prima, mostrano di riconoscerlo. “… Non sono sicuro dell’abito che ho indosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me..” - e sembra l’inverso del Bernardino Lamis de L'eresia catara [La Riviera Ligure, 1905; poi, Erma bifronte, Treves, Milano 1906; e infine, quinta raccolta delle Novelle per un anno, “La mosca”, 1922].

La tensione, penosamente generata dalla consapevolezza della sua diversità, non cambia quando il personaggio scopre d’essere “qualcuno” agli occhi degli altri. Viene accompagnato in una splendida dimora, dove ad attenderlo c'è una giovane donna, già intravista prima in una fotografia. Ma la giornata sembra volgere al termine e si scopre di nuovo solo e già vecchio in quella fredda casa priva di vita, che continua a sentire come estranea.

Inesorabile la denuncia dello scorrere del tempo che trasforma e sfigura ogni cosa, rendendola irriconoscibile.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

La novella Una giornata, per certi versi, riprende in parte l’argomento “cinema”, che aveva già interessato Pirandello quasi vent’anni prima nel romanzo pubblicato, dapprima da Treves, nel 1916, col titolo “Si gira...”, e successivamente riveduto, da Mondadori, nel 1925, come “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”.

In generale, in opposizione a tutta una tradizione ottocentesca positivistica, e avverso agli stessi contemporanei futuristi, che esaltavano le macchine in quanto rivoluzionario fattore di progresso e di miglioramento sociale, Pirandello accende in controtendenza una sua convinta polemica passatista (e antistorica?), perché ostile alla tecnologia, colpevole di mercificare orribilmente natura e vita.

L'uomo, ormai reso schiavo da questa meccanizzazione responsabile della perdita di gran parte dei valori umani, ha smarrito oltre che la propria identità, anche la capacità d’intervenire nel presente e soprattutto di interpretarlo. Vittima di questo processo è pertanto anche l'intellettuale coinvoltovi, suo malgrado, il quale, non avendo più possibilità d’intervento critico, neppure avrebbe più niente da dire od opporre.

La decostruzione strutturale

Già dal titolo, i Quaderni preannunciano una struttura divisa, e poi ulteriormente ripartita in paragrafi, pur senza intestazioni di sorta, e questo frazionamento evidenzia quella “decostruzione” rintracciabile pure in Uno, nessuno e centomila, oppure, leggermente meno, e in maniera diversa, ne Il fu Mattia Pascal.

Mario Ricciardi (La posizione del Fu Mattia Pascal nel romanzo di Pirandello, in “Lo strappo nel cielo di carta”, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988) è propenso, infatti, a considerare: «Il fu Mattia Pascal al centro delle due linee romanzesche prevalenti in Pirandello e coesistenti su binari paralleli: quella dell’Esclusa giunge fino ai Vecchi e i giovani e a Suo marito (Giustino Roncella nato Boggiolo) e quella che, invece, partendo dal saggio L’umorismo giunge fino ai Quaderni di Serafino Gubbio operatore (Si gira…) e a Uno, nessuno e centomila. Per la prima prevale il rapporto tra romanzo e pubblico e la funzione rappresentativa della letteratura, per la seconda prevale la ricerca sperimentale e la decostruzione dell’istituto stesso del romanzo.».

La circolarità della scrittura

Il fu Mattia Pascal si mostra in una forma circolare che partendo dal presente percorre la linea curva che va a ritroso verso il passato per poi ritornare alla contemporaneità.

The Importance of Being Earnest

E, come tutti i nomi di Pirandello, neppure quello di Mattia Pascal sembra casuale: quello del Moscarda di “Uno, nessuno e centomila” ricorda il fastidioso ronzare dei ditteri, questo allude al matematico e filosofo Blaise e, oltre che alle sue critiche del divertissement e della casistica, in particolare ai suoi studi sul calcolo delle probabilità, per sottolineare l’importanza della metafora della “scommessa”, quale chiave per la comprensione della vicenda del defunto personaggio che porta quel cognome come unica certezza (più che di vita, di morte!).

L’importanza di richiamare giochi di parole

Come il gioco di parole "earnest"/Ernest, usato da Wilde in A Trivial Comedy for Serious People (1894), anche Pirandello intende paradossalmente ribaltare la lezione shakespeariana enunciata da Juliet: "A rose by any other name would smell as sweet"?

L’importanza delle “didascalie interne”

In “Seuils” (Editions du Seuil, Paris 1987), Gérard Genette sottolinea come delle “didascalie interne” abbiano sì senso, ma «solo per un destinatario già impegnato nella lettura del testo, lettura che essi presuppongono per quanto riguarda almeno ciò che li precede»; e cioè ne guidano la comprensione e, col disporre gli immediati nessi narrativi, li preparano ai seguenti.

Una sorta di destoricizzazione

Alla stessa stregua d’una, quasi, primordiale, e letterale, “scompaginazione”, l’apposizione d’un’intrinseca indicazione analitica equivarrebbe alla divaricazione dell’Io, alla frammentazione della realtà o a una specie di “destoricizzazione”? 

Il romanzo antistorico

La fiducia hegeliana nella “Storia” e nel progresso – e pensiamo alla Provvidenza manzoniana, o all’Unità in Nievo, in cui si dà ciecamente credito a un futuro che non può che essere migliore del passato -, viene completamente capovolta dall’orizzonte de “I Viceré”, un modello ripreso da Pirandello, ne I vecchi e i giovani, il romanzo per la prima volta pubblicato a puntate nel 1909 su “Rassegna contemporanea”.

Il romanzo antiborghese

Grazie alla consolidata tecnica dell’umorismo, Pirandello intendeva denunciare il malcostume imperante nella classe dirigente italiana, e soprattutto in quella borghesia a cui egli stesso apparteneva. Ma poi, come arma per colpire questa borghesia, aveva fatto ricorso a un genere borghese per antonomasia, il romanzo, sebbene (anti-)storico. E, sia pur animato da una forte passione civile, non riesce a non contraddirsi nell’opporre a una labile speranza, quasi utopica, e forse praticamente impossibile, dello scetticismo nichilista di fondo.

«Una cosa è triste, cari miei: aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà...».

Un contrasto generazionale

I personaggi rappresentano un contrasto generazionale che si risolve nel confronto tra concezioni e ideali differenti: da una parte chi, dopo aver contribuito all'Unità, vede perduta l'eredità risorgimentale, e dall’altra quanti, nel gretto conservatorismo dei padri, scorgono solo una difesa di interessi reazionari. In questa contrapposizione, Pirandello esprime un giudizio storico molto severo sul processo di riunificazione dell'Italia e sullo stesso “Stato” fondato da una dinastia che dal XVI secolo aveva spostato i propri interessi territoriali ed economici dalle regioni alpine verso la penisola.

Un fallimento generazionale

Analizzando I vecchi e i giovani, il critico letterario, e partigiano, Carlo Salinari ha enumerato ben tre “fallimenti collettivi”: in riferimento al Risorgimento, come mancato moto generale di rinnovamento; all'unità, come fallito strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate dell'Italia meridionale; e al socialismo, che avrebbe potuto costituire una reale ripresa del movimento risorgimentale di massa.

Ma come se ciò non bastasse, questi fallimenti collettivi si sovrappongono poi a quelli “individuali” «dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno dei giovani» (Miti e coscienza del decadentismo italiano: D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello, Feltrinelli, 1960).

La perdita della storia come razionalità

In “La fine dell’identità nel pensiero di Pirandello” (in La «persona» nell’opera di Pirandello, Mursia, Milano 1990), Carmelina Sicari prospetta il definitivo tramonto dello “storicismo” pirandelliano nella tragedia dell’Enrico IV, poiché vi è «espressa dal suo punto più alto la perdita della storia come razionalità. Il rapporto causa-effetto su cui si fonda la linearità della storia viene irriso e destabilizzato».

A nutrire la follia, qui sono eventi ben noti, nella dilacerante ambivalenza di finzione e realtà. Una realtà istituita come tale dal discorso che si è scelto di riferirle, in un’apparenza di senso che non può che non essere “relativo”. E conseguentemente ambiguo.

L’equivoco ironico

L’equivoco ironico è contrassegnato dall’episodio dell’ultimo dei vassalli preparatosi a recitare la parte del cortigiano d’un Borbone di Francia e non del re di Franconia. -In fondo una differenza di due sole lettere in più o in meno.

La demistificazione è palese nel distinguere le differenti motivazioni dell’Enrico IV e della marchesa in maschera a tingersi i capelli: «Io lo faccio per ridere. Voi lo fate sul serio». Eppure, la mascherata dovrebbe conciliare le opposizioni che mettono a confronto la storia con la vita e la realtà con l’arte della rappresentazione, che però necessita di convinzione nel rendere coerente la verosimiglianza: «… guaj a chi non sa portare la sua maschera, sia da re, sia da Papa». Perché la finzione si trasforma nella farsa tragica della persona, quando, insoddisfatta, si ricostruisce nell’apparenza d’un’immagine che più non riconosce.

L’incontrollabile flusso della dialettica che ab exterioribus conduce ad interiora s’incarna in quelle “piccole combinazioni dello spirito”, fantasmi, «… immagini che non si riesce a contenere  nei regni del sonno […] Ho paura talvolta anche del mio sangue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane…».

Anti-

La non ammissione di cambiamenti, a garanzia della coerenza, risulta anti-storica, come anti-etica è la ricerca della gloria in un inutile assassinio e anti-classico l’impegno a non esserne deriso. Come in tutte le tragedie l’eroe soccombe, ma di morte “morale”, in quella condanna perpetua «a riassumere non più per volontà, ma per necessità, la finzione del folle» (Silvio D’Amico Cronache del teatro, ed. Novecento, Palermo 2001).

Una questione di forma

Se il sano “haforma sociale grigia, nella quale riconoscersi lucidamente, il pazzo “è” egli stesso forma dalle iridescenti caratteristiche cromatiche del carnevale, nell’incarnare quella magmatica imponderabilità variopinta e vitale.

Metateatro

Il motivo del “teatro nel teatro” si dilata in un illusorio gradimento per la vita che, dietro l’apparente decorazione d’uno spettacolo, in cui protagonista e scenografo si sovrappongono, nasconde l’angoscia.

“Il ghigno del pazzo”

«… Si spaventano solo di questo, oh: che stracci loro addosso la maschera buffa e li scopra travestiti; come se non li avessi costretti io stesso a mascherarsi, per questo mio gusto qua, di fare il pazzo!».

Metastoria

Avulsi dalla loro stessa storia, come da un tempo sospeso, sono invece i Sei personaggi in cerca d’autore, eppure «… più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse, ma più veri».

A essere soggetta alla storia, come alla mutevolezza del tempo, che trascorre inesorabile, e della vita, la quale trasforma l’essere costringendolo a indossare quelle diverse maschere che dalla stessa vita lo estraniano, risulta la persona (che “ha” forma), mentre il personaggio, dall’individualità ben delineata, “è” e resta forma.

Unità di tempo, luogo e azione

«Siamo in presenza d’una commedia classicistica per non dire aristotelica, dal momento che vi ritroviamo tutti i connotati di quella forma d’arte: l’esposizione, le peripezie, la catastrofe, e di più le tre famosissime unità. –  di tempo, luogo e azione, che non ha bisogno di nominare Luciano Codignola, in La crisi della struttura drammatica tradizionale in Strindberg e in Pirandello (Alle origini della drammaturgia moderna Ibsen, Strindberg, Pirandello, Costa & Nolan, Genova 1987) - Ma al di là della facciata, è anche chiaro che non c’è niente, se non un gigantesco mucchio di macerie. Tutti i valori in cui l’uomo credeva, estetici, morali, civici… sono ridotti a zero».

La teosofia del Leadbeater

Quali influenze potrebbero aver avuto sull’immaginario pirandelliano le letture teosofiche di Charles Webster Leadbeater, in particolare di “The astral plane: its scenery, inhabitants, and phenomena” (Theosophical Pub. Soc., London 1897)?

E in specie laddove il vescovo veterocattolico britannico sostiene che lo scrittore: «… trasforma le immagini dei suoi eroi in materia mentale, poi con uno sforzo di volontà fa muovere queste marionette, da una parte all'altra, separandole o raggruppandole, ed è così che la trama si svolge veramente davanti a lui. Grazie alla nostra strana e falsa concezione della realtà, ci è difficile comprendere come queste immagini mentali possano esistere effettivamente […] Alcuni romanzieri hanno osservato superficialmente ciò che sta accadendo, e hanno affermato che i loro eroi, una volta creati nella loro immaginazione, vi sviluppano una loro volontà e portano la trama a cambiare direzione e talvolta per un verso completamente opposto al piano originale dell'autore».

Fatti pupo, ti muoverà un puparo!

Ne “Il berretto a sonagli” ('A birritta cu' i ciancianeddi, 1916), l’agrigentino riprende esplicitamente proprio questa concezione: «… Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo…». E paragona a uno strumento a corde l’agire dell’uomo divenuto marionetta di se stesso, il quale muove i fili del suo pupo, facendogli interpretare i vari ruoli scelti, che poi pretende vengano rispettati dagli altri.

Qual è il tema costante di Pirandello?

Forse, allora, ha ragione Walter Binni nel provare a rispondere alla domanda “Qual è il tema costante di Pirandello?” con l’individuarlo in: «… Un esasperato idealismo che aggirandosi nell’ambito della psicologia, della persona empirica, riesce ad un sostanziale solipsismo: l’io può cambiare, trasformarsi, assumere mille maschere, ma permane in lui il principio dell’individuo grezzo che non può superare il silenzio che lo esclude dagli altri» (“Poetica del decadentismo”, Pubblicazioni della Scuola normale superiore di Pisa, Pisa 1936).

Lo spettacolo della nostalgia

In ogni caso, il ritorno nostalgico del personaggio pirandelliano all’integrità precedente la sua “assenza” è destinato a fallire nella rimozione dell’intera esistenza, privata d’ogni illusione. Ma, nel porre l’accento sulla verità ontologica, l’esordio teatrale pirandelliano era stato “verista”. Anche se, già nell’Ottocento, l’idea naturalista si andava trasformando, cosicché l’obiettivo di Zola divenne di ricorrere ai canoni della scienza sperimentale per spogliare l’opera dagli infingimenti artistici.

Lo spettacolo della meraviglia

Prima d’essere una forma tradizionale della letteratura, per Pirandello, il teatro è un’espressione naturale della vita, coinvolgente al punto da non poter letteralmente, ed etimologicamente, assumere significato senza pubblico [theáomai (θεάομαι), assisto… attonito, da thaûma (θαῦμᾰ), meraviglia] oppure una scèpsi (σκέψις, dal tema di σκέπτομαι «osservare») fine a se stessa?

Speculum et spectatio

Una scepsi che però si perde sempre in una soluzione ontologico-metafisica, nel promuoversi a speculazione euristica sul tema della spectatio (un misto di osservazione e considerazione), ma anche quello sbirciare a lungo nello specchio (speculum da specio, scruto), o meglio negli specchi, ove riflettere lo sguardo proprio, e quello degli altri, nella vertigine d’un movimento riproduttivo di immagini.

Madelaine Strong Cincotta considera come gli occhi altrui riflettano, alla stregua di tanti specchi, altrettante immagini in una sorta di autodistruttivo gioco dai riflessi cangianti, anzi, meglio: «lo sguardo altrui tiene fissa l’immagine d’una persona, afferrandone gli atteggiamenti per così dire, proprio come fa uno specchio, e crea così una forma dentro la quale l’altra persona cerca di calzarci, e così facendo limita le nostre possibilità di essere. Sapendo che il nostro essere soverchia una tale forma e non può che venire uccisa da essa, e purtuttavia avendo bisogno dell’altrui conferma del nostro essere, sentiamo lo sguardo altrui fisso su di noi e ne abbiamo orrore» (L’io, lo specchio e lo sguardo altrui, in “La «persona» nell’opera di Pirandello”, Mursia, Milano 1990)

Un giudizio sospeso

Lo spettatore ne verrebbe coinvolto quale testimone oculare del rifacimento visivo d’una narrazione su cui, inevitabilmente, incombo la sospensione (epoché, ἐποχή) del giudizio, come in parte confermerebbe Nicola Chiaromonte: «… il vero teatro è un “tribunale” di fronte al quale ciò che si giudica non sono le azioni finte di personaggi immaginari, ma la coscienza attuale della società attuale, che lì è chiamata a rendersi conto di tutte le “realtà” in cui tanto crede e che tanto supinamente subisce giorno per giorno, anzi della “realtà” in sé e per sé, che messa lì a confronto con la finzione appare tanto problematica» (Scritti sul teatro, Einaudi, Torino 1976).

Coup de théatre?

Il teatro post- risorgimentale non prediligeva particolarmente le tragedie, orientandosi su quel genere drammatico che non suscitasse necessariamente passioni violente. L’immediata comunicazione con il pubblico lo caratterizzava per quel didascalismo che faceva entrare l’autore direttamente in fabula.

La novità del teatro moderno

«La novità del teatro moderno – il cui nume fondatore è Henrik Ibsen – consiste  nell’aver riportato sulle scene (per la prima volta dopo i Greci, benché in modo assai diverso) il dramma dell’uomo alle prese con la verità, deciso ad andare in fondo alla propria natura, a fare i conti col mondo in cui vive e quindi a non fermarsi dinanzi a nessun rispetto umano. Da Ibsen a Strindberg, a Shaw, a Cechov, a Pirandello, non si tratta più, a teatro, di questo o quel conflitto, di questo o quel caso umano, di questa o quella passione, ma della verità. O, per meglio dire: del problema della verità…» (Nicola Chiaromonte: La situazione drammatica, Bompiani, Milano 1960).

Un “espressionismo surreale”

Se Menandro avesse imitato la vita o la vita Menandro era una domanda che si ponevano già gli spettatori dell’Epitrepontes (Έπιτρέποντες, arbitrato). E, se è il “vero”, sia pur relativo, per Pirandello, la condizione indispensabile per attuare una penetrazione ad interiora, ciò sarebbe sufficiente a poterlo classificare nei termini d’un “espressionismo surreale”, visto che persino per lo Schlegel, fondatore del romanticismo, compito del poeta drammatico è dipingere l’espressività della vita?

Il problema della “verità” storica

Il problema della “verità” storica sembra un’altra tematica fondamentale per Pirandello, che lo avvicina così a certi punti di vista della moderna psicologia del profondo quando prova a interpretare avvenimenti di cronaca.

Così è (se vi pare)

Sebbene con tono umoristico, in Così è (se vi pare) [rappresentata il 18 giugno 1917 e tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero] vengono contrapposte due tragiche verità reciprocamente autoescludentesi. Al dramma fa da sfondo un ambiente provinciale, curioso, pettegolo e stupidamente pretenzioso, che Pirandello non accomuna al proprio pubblico, al quale prospetta invece modi personali di vedere le cose, quindi la coesistenza di distinte verità soggettive: «… Per me, io sono colei che mi si crede».

La favola del figlio cambiato

Ripresa dalla novella Il figlio cambiato (1902), - che riecheggia La vida es sueño di Calderón de la Barca, - la composizione favolistica, musicata da Gian Francesco Malipiero, rappresentata nel gennaio del 1934 a Braunschweig, mette in scena un principe (il figlio cambiato), che si sente malato nell'anima e infelice, nell’esclamare: «Niente è vero – e vero può esser tutto – Basta crederlo per un momento – e poi non più, e poi di nuovo – e poi sempre; o per sempre mai più”».

“Versurum esse”

È compito dello psicanalista entrare continuamente in, per uscire subito dopo dalla, verità soggettiva del paziente, e pur dimostrandosi con lui solidale, restando partecipe delle sue fantasie, dei sogni, persino dei suoi deliri, sapersene ritrarre.

Come tu mi vuoi

In “Come tu mi vuoi”, scritto nel ’29 e ispirato a un famoso avvenimento di cronaca, realmente accaduto (il caso Bruneri-Canella o dello "smemorato di Collegno"), riprodusse il dramma del dubbio, per quanto ragionevole, sull’identità d’una “persona”, rimasta anch’essa, forse per sempre, sperduta durante la guerra del ’15-18.

Ne fece però un “personaggio” femminile enigmatico, che vive a Berlino da femme fatale e rifiuta di lottare per un’identità posticcia, non accettando quella d’accatto che le si vuol affibbiare, e finisce per rientrare nell’anonimo ambiente caotico da cui era stata tratta fuori.

“Nessuno veramente mentisce del tutto”

«Consolati, nessuno veramente mentisce del tutto. Perché ogni menzogna costruita è costruita in base ad un granello di verità, che dà l’avvio alla menzogna».

Quest’affermazione dell’Ignota sembra far da contraltare con quanto si dice in “Non si sa come” (1934): «Ma voi non sapete come tutto il vostro corpo nel muoversi, e voi stessa nei gesti che fate involontariamente, date torto, date torto alle parole savie che dite!».  

La verità all’origine della menzogna

Tutte le comunicazioni, anche quelle menzognere, rappresentano comunque delle rivelazioni d’una sottostante verità, all’origine della stessa menzogna. Il compito di trattenere la realtà, cangiante e variabile, ma pur sempre vitale e viva, entro i suoi schemi rigidi, l’Ignota  lo considera una forzatura psicologica: “Guai se non ci fosse la ragione a far da camicia di forza!”, alludendo così con antifrastico sarcasmo a una ferrea gabbia che rinserra il mobile contenuto del pensiero libero. In effetti, inevitabilmente, qualsiasi “razionalizzazione” altererebbe il contenuto della vita interiore, di per sé contraddittoria ed evanescente.

Realtà e finzione coabitano insieme soprattutto nella follia che mai del tutto abroga quella verità che soggiace anche alla più fantasiosa invenzione.

‘Uno per tutti’ e … tutti per Uno!

Questo problema dell’identità sembra l’abbia assillato sotto forme molteplici; e a rendere il quesito del riconoscimento sempre problematico c’è proprio una continua trasformazione della persona.

«Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede ‘uno’, ma non è vero: è ‘tanti’, signore, ‘tanti’, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: ‘uno’ con questo, ‘uno’ con quello – diversissimi! [dice il Padre dei “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921)] E con l’illusione, intanto, d’essere ‘uno per tutti’, e sempre ‘questo uno’ che ci crediamo, in ogni nostro atto» (e suona come una battuta, se invece d’azione volontaria, s’intende la suddivisione della pièce, visto che le due “interruzioni” sembrano casuali e neppure sono previste delle “scene”).

La cultura verista

C’è da chiedersi se Pirandello sia o no erede della cultura verista di Capuana, Verga e De Roberto; o non piuttosto dei romantici tedeschi del primo Ottocento, come suggerisce Giovanni Macchia (1982): «Gli esemplari sono da ricercare […] in opere immerse nel fantastico puro, incredibili esperienze di cui Pirandello manipola la trascrizione in chiave borghese, realistica. È una “farsa trascendentale” (nel senso che Friedrich Schlegel dette all’esperienza), retta sull’assurdo».

“Ulisse e l’ombra”?

Nel saggio su L’umorismo, Pirandello cita il “Peter Schlemihls wundersame  Geschichte” (1814) di Adalbert von Chamisso, un’opera che ben s’inserisce nel filone d’una sensibilità nei confronti di quella figura dell’«uomo senza qualità» (congelata più d’un secolo dopo, nell’incompiuto “Der Mann ohne Eigenschaften” di Musil), spettatore, eppure artefice, della frantumazione del suo stesso “Io”, anche se poi, nei suoi termini favolistici (gli stivali delle sette leghe, la borsa magica, dalla quale è possibile estrarre all'infinito monete d'oro), oltre che alludere alla tradizione del patto col diavolo (Faust compreso), soprattutto “adombra” (ed è proprio il caso di sottolinearlo apertamente!) alla condizione dell’autore, di chiare origini francesi (Louis Charles Adélaïde de Chamissot de Boncourt), esule dalla regione Champagne-Ardenne ed estraneo tuttavia nella Prussia di Federico Guglielmo III di Hohenzollern.

Come Schlemihl, «anche Chamisso è privo della propria “ombra”, perché non ha il proprio posto in mezzo agli uomini; e la perdita dell’ombra è soltanto una maniera  romanzesca di rappresentare la propria immutabile tragica condizione di sradicato», scrive Ladislao Mittner nella sua monumentale “Storia della letteratura tedesca” (Einaudi, Torino 1978) .

Ma, nel confrontare i due personaggi principali, di Chamisso e Pirandello, Daniela Cimarosa (L’«Io» e il suo doppio - Analisi e interpretazione dell’opera pirandelliana in chiave psico-esistenziale, Città del Sole, Reggio C. 2024) osserva acutamente che se l’uno (Schlemihl) è un uomo senza ombra (e senza qualità), l’altro (Mattia Pascal-Adriano Meis) è un’ombra egli stesso, pur senza l’uomo che la proietti. Un Ulisse immemore, sballottato tra i flutti del suo stesso nostos (νόστος).

«… Aveva un cuore quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari quell’ombra e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra di una testa» (“Il fu Mattia Pascal”, 1903).

La funzione della professionalità

Nel caso di Serafino Gubbio, invece, «l’elemento che caratterizza il personaggio, – secondo Franca Angelini: Si gira…: l’ideologia della macchina in Pirandello (Il romanzo di Pirandello, Palumbo, Palermo 1976) – più che la sua mancanza di qualità, è la sua funzione: Serafino è solo un filo conduttore di temi ideologici, una coscienza che registra la crisi di coscienza e una scrittura che comunica l’impossibile comunicazione; registrazione e comunicazione introiettate fino alla totale assunzione del mestiere di operatore e fino alla crisi». 

Coscienza dell’inconsistenza

Al contrario di Chamisso, al Mattia-Adriano, come coscienza della sua inconsistenza,  resta da configurarsi solo ciò ch’è naturalmente incapace di consistere in una vera personalità stabile. Tanto che tocca all’«io narrante» prendere le distanze da quei “due” immersi nel “sentimento del contrario”, come in un, continuo, doppio avvertimento.

«… Portai questi due morti  a spasso per Pisa […] O bianco campanile, tu potevi pendere da una parte; io, tra quei due, né di qua né di là.».

Due viaggi, una sola meta: la disperazione o la nausea?

Il viaggio del Mattia Pascal ha una dimensione inversa rispetto a quello che intraprende Serafino Gubbio, anche se poi la meta raggiunta risulta la medesima, l’alienazione e il senso di svuotamento dell’esistenza. A proposito del quale sembra aver anticipato quel “diario filosofico” di Sartre, intitolato dall’editore Gallimard “La Nausée”, ma ispirato alla Melancholia incisa da Dürer.

La “lanternino-teo-sofia”

Il cannocchiale rivoltato del dottor Fileno, ne “Il Fu Mattia Pascal”, cede il posto alla “lanterninosofia” individuale del signor Anselmo Paleari, che tramuta la natura di ciò che ci circonda, alterando ogni ambito della conoscenza.

Ogni epoca proietta una luce predominante alimentata dal sentimento collettivo. Ma la tragedia del burattino Oreste di fronte allo “strappo nel cielo di carta” lo trasforma in un Amleto perplesso dalla definitiva vanificazione dell’illusione.

Piazza/ pazzia

Nei “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, allorquando tutti hanno la possibilità di “vedere” tutto, «Non c’è più nulla da custodire! Siamo come in piazza». Un involuto (e quanto voluto?) anagramma di “pazzia”, ripetuto ne Il berretto a sonagli.

L’apertura, lo strappo, corrisponde al crollo di tutte le vane “costruzioni”, mentre nella novella “Quand’ero matto” [Streglio, Torino 1902, poi in Il vecchio Dio, Bemporad, Firenze 1926], la testa dell’insano diviene un luogo chiuso, concluso, perché compiuto, e non familiare, popolato solo da estranei, come un albergo. In quest’ultima definizione metaforica, la pazzia corrisponde a un’infinita suddivisione dell’Io, mentre nella prima viene determinata dalla caduta della maschera sociale che rivela l’essere in sé per come effettivamente è.

Maschera e volto

La maschera indossata quale meccanismo di difesa è anche una corazza che controlla le nostre reazioni, e il suo valore di strumento di dominio lo si ritrova nella figura dell’Enrico IV, in cui si fondono tratti reali e artistici e, sulla scena, si finisce per riproporre una tragedia umana.

Eppure, per concedere maggiore coerenza ai propri travestimenti e ambire a un ruolo più elevato in società, anacronisticamente, ci si “ingaglioffa”, manipolando freneticamente una realtà “costruita” ad hoc, quale artifizio “costrittore” d’ogni libera espressione dell’animo.

Cinema vs Teatro

Rispetto al teatro, dove l’attore non può osservarsi mentre interpreta una parte che vive sulla scena solo per gli spettatori, la cinematografia pone il dilemma (peraltro sollevato pure dai Dialoghi tra il gran me e il piccolo me) di quella specularità che allontana dal sé doppiamente; dapprima necessariamente per l’interpretazione della verità ideale e poi, eventualmente, nel rivedere la propria immagine, ridotta a personaggio, registrata e riprodotta con quella corporeità  in moto non più sua, poiché svuotata della persona.

Vita o spettacolo?

«… Chi vive, quando vive, non si vede: vive… [quasi un “refrain” che si ripete spesso nelle opere pirandelliana dalla novella La carriola al romanzo Uno, nessuno e centomila] Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo» (“Quaderni di Serafino Gubbio operatore”).

E a “salvare” il protagonista è quel significato professionale che l’io narrante attribuisce alla propria funzione e lo scrittore appone a suggello dell’intestazione?

La condizione dell’artista?

Operatore, attore, scrittore… sospeso com’è, «tra essere e non essere, preserva dai veleni del mondo» senza uscirne del tutto, risponde Umberto Artioli (L’officina segreta di Pirandello, Laterza, Bari 1989).

Dubito ergo sum

A generare assonante ambiguità sembra sia stato il dubbio (dubium), e questo sarebbe stato prodotto dal doppio (duplum), visto che la radice di entrambi rimanda al numero due (duo). Una questione anche molto studiata, nell’ambito della teoria psicoanalitica, questa del doppio. Nel suo specifico, da Otto Rank, con il suo lavoro del 1914, “Der Doppelgänger”, e un lustro dopo dallo stesso Freud, nel saggio “Das Unheimliche” del 1919.

Ma, come la fantasia dei due personaggi che occupano, nello stesso tempo, lo stesso spazio narrativo, pure il problema dell’altro da sé, dell’opposto speculare, e contrario all’identità sociale dell’individuo, è stato un tema ricorrente nella narrativa internazionale, con antecedenti importanti: da Hoffman a Gogol, da Dostoevskij a Poe e Stevenson e, anche nel Novecento, non mancano esempi illustri, come James, Kafka, Conrad, Woolf, Cortàzar e Borges.

Sono quasi due persone

In una lettera indirizzata alla fidanzata Antonietta nel 1894, le si presenta con questa disarmante sincerità: “In me sono quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppure la conosco bene io stesso. Soglio dire, ch’io consisto d’un gran me e di un piccolo me: questi due signori son quasi sempre in guerra tra di loro […]. Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone”.

Dialoghi tra il gran me e il piccolo me

L’anno successivo, di questa confidenza ne fa una dimostrazione letteraria nei “Dialoghi tra il gran me e il piccolo me” (I. Nostra moglie, da La Tavola Rotonda, 2 novembre 1895. II. L’accordo, da Il Marzocco, 13 giugno 1897. III. La vigilia, da Ariel, Roma, anno 1, n. 2, 25 dicembre 1897. IV. In società, da Il Ventesimo, Genova, 4 febbraio 1906).

Due autoconoscenze

Già dal primo paragrafo del primo capitolo di questi Dialoghi, è un duplice modo d’essere e di sentire a comporne la struttura dialettica. Da una parte, una sorta d’autocoscienza “riflessa” in cui un soggetto (io) pondera su un oggetto (me), che pur gli appartiene, e dall’altra una specie d’autoconsapevolezza che, non riflessivamente, si riconosce rispetto agli altri da sé.

Il volto e lo sguardo

Questo duplice volto (e sguardo), della (e sulla) realtà non possono che sortire un effetto quanto meno disorientante in Due letti a due; Pari; Stefano Giogli uno e due; L’avemaria di Bobbio; Il treno ha fischiato; Canta l’epistola; Il coppo; Niente; La toccatina; La maschera dimenticata; La carriola

Chi vive non si vede

«Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita dal di fuori è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è morte… conoscersi è morire» (La carriola: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917, poi nella raccolta Candelora, Bemporad, Firenze, 1928).

Il riemerso o il rimosso?

Luciana Martinelli (Forma e maschera nella novella di Luigi Pirandello, in “La «persona» nell’opera di Luigi Pirandello”, Mursia, Milano 1990) commenta questa costruzione narrativa, focalizzata sulla percezione diversa che l’io ha di sé e «fa sì che l’estraneo, l’alieno non sia il nuovo io, ma il precedente. Il diverso, che emerge dal fondo dell’inconscio, l’invasore, che bisogna combattere e rinnegare, non è il nuovo io ma il vecchio: quello che credeva di essere e non era, che ha occupato un luogo inesistente, che si credeva qualcuno che non c’era…».

Die Rückkehr des Unterdrückten

A suo modo, un creditore venuto da un passato ormai trascorso e scordato e, forse, proprio per questo, un probabile diabolico ciarlatano ingannatore, o quanto meno un furfante ipocrita.

« – Ma scusate, non siete don Ciccino Cirinciò, voi? […] – Quello del mulino? […] tutti restarono a guardarsi tra loro, non sapendo comprendere la ragione di un mutamento così improvviso, e parecchi avanzarono il sospetto che fosse un imbroglione, un miserabile impostore venuto a mistificarli.» [La lettura, agosto 1918, col titolo Come Cirinciò per un momento si dimenticò d’esser lui; poi in Il carnevale dei morti, Battistelli, Firenze 1919; infine come La maschera dimenticata].

Nel riscoprire qualcosa di conosciuto, “familiare” (heimlich) lo si riscopre come “medesimo” ed eguale, col rischio d’un’imponderabile reazione all’ambivalenza affettiva nei confronti dell’estraneo (unheimlich), d’una  coazione a ripetere o d’un’angosciosa confusione (unheimlichkeit, perturbamento) che può riflettersi nell’imbarazzante panico del rimorso (da remordeo, inquietare), già rimosso e ora riemerso.

Quella “maschera dimenticata” che, realizzando l’irrimediabile perdita di senso dell’esistenza, ricorda di dover obbligatoriamente rimanere sempre tale per “qualcuno” e d’essere “nessuno” per se stesso.  


 

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01 Dicembre 2024

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